"Noi" di Paolo Di Stefano
Occupano tanto spazio, il nonno e il padre Vannuzzu. E sono sentimenti ambigui e complessi, quelli che legano nonno e padre e, di riflesso, il nipote Paolo. Perché il nonno che è stato un padre-padrone, un femminaro che aveva tradito la moglie con chissà quante donne, che aveva un numero imprecisato di figli illegittimi, questo uomo verso cui si prova un lieve disprezzo e da cui è meglio allontanarsi, esercita uno strano potere di fascinazione sul figlio che ritorna sempre alla famiglia di origine, anche quando ha trovato lavoro al Nord, prima a Milano e poi in Svizzera. Questo nonno è anche capace di trasformarsi e di addolcirsi, di lasciarsi tirare i baffi quando prende in braccio il piccolo Claudio, il nipotino a cui non è capace di negare niente, neppure la tanto desiderata automobilina verde a pedali che il bambino aveva fatto a tempo ad usare solo una volta, nel corridoio di casa.
Che adulto può diventare il figlio che cresce accanto ad un padre così, che lo caccia spesso di casa e che non rispetta sua moglie? Vannuzzu è sempre insicuro di sé e di quello che vuole, il figlio del femminaro dalle tante donne è un timido che sublima pensieri d’amore, che dedica versi alle donne che vagheggia, che neppure si accorge se queste non lo corrispondono. Per non dire della volta che viene respinto proprio perché figlio di suo padre. Vorrebbe studiare ma impiegherà degli anni per laurearsi in lettere classiche. Andrà al Nord per poi tornare a Sud, come se ci fosse un elastico che lo tira e poi lo ritira indietro- forse questo elastico è la madre che lo ricatta, forse è il sentimento di amore-odio per il padre, forse è Avola, è la Sicilia con il suo clima dolce o infuocato ben diverso da quello milanese che gli appare freddo e ostile. Si sposa, Vannuzzu, accetta la cattedra a Lugano, ogni estate si mette in auto per tornare ad Avola. Alla sera legge poesie ad alta voce ai bambini e poi, a volte, viene invaso da una furia che è una replica delle tremende scene violente del padre. E sua moglie non ha trovato mezzo migliore, per porvi fine, che svenire, accentrando tutta l’attenzione. Eppure c’è molto affetto per questo padre piccolo e calvo che si è conquistato un posto nel mondo partendo dal nulla, che guiderà senza mai fermarsi, su quella strada che aveva fatto tante volte con l’auto stracarica di bambini e bagagli (quanti ricordi, quanti aneddoti buffi di quei viaggi) e che adesso trasportava la piccola bara di Claudio, morto per leucemia a cinque anni, da tumulare nella terra che era e rimane la sua.
“Noi” è un libro dominato da una grande presenza, quella del nonno, e da una grande assenza, quella di Claudio. La sua vocetta si fa sentire quasi subito in questa storia di famiglia. Non la riconosciamo, perché non conosciamo ancora Claudio. Devono passare anni prima che lui entri nella storia, gli anni del femminaro e del piccolo professore calvo e dei tre fratelli più grandi. Il suo passaggio in famiglia sarà breve ma, se all’inizio pensavamo che il romanzo fosse l’elegia per un padre, mentre leggiamo ci rendiamo conto che è, invece, un omaggio straziante alla memoria del fratellino, prestandogli parole non dette, scherzi mai fatti, un’amichetta immaginaria, il ricordo del pupazzo Brontolo da cui non si separava mai. Pagina dopo pagina, aspettiamo gli intermezzi della voce di Claudio che si addormentò per sempre il 9 aprile 1967, il giorno in cui la Juve vinceva il Bologna con un goal straordinario di Burgnich.
Le donne sono, invece, personaggi secondari, ombre dei mariti, in questo romanzo molto italiano e per molti versi molto regionalista. Un romanzo bello, affabulatore, la rielaborazione di un trauma alleggerito da sprazzi di umorismo e ironia, con una narrativa che mescola passato e presente.
Ed. Bompiani, pagg. 608, Euro 22,00 (formato Kindle 12,99)
Recensione a cura di Marilia Piccone
Luglio 2020