L’OFFICINA DEL DIAVOLO, JACHYM TOPOL
È possibile rendere alcuni luoghi simbolo dei crimini perpetrati dai regimi totalitari del ‘900 tra le più appetibili mete del turismo di massa?
Ci sono parole per descrivere l’orrore? Del brutto si riesce a parlare, del brutto si può dare un’idea, se non altro in opposizione al bello. Ma come rendere l’orrore che va al di là dell’umano?
Forse solo il grottesco, o il paradosso, è il mezzo giusto per raccontare l’indicibile, per dare una brusca scrollata all’indifferenza delle coscienze.
“L’officina del diavolo” dello scrittore ceco Jáchym Topol crea uno scenario grottesco per mettere sull’avviso di qualcosa che già sta accadendo, pur se in maniera strisciante e subdola. La trasformazione, cioè, dei luoghi i cui è avvenuto lo sterminio di milioni di persone, vittime dei regimi totalitari del secolo XX, in mete del turismo di massa. E allora ‘l’officina del diavolo’ non è soltanto una definizione poetica (?) per l’uso di quelle strutture nel passato ma anche per quello nel presente, perché il diavolo, o una entità malvagia di qualunque denominazione, si affaccia anche nella trasformazione operata nel presente.
L’io narrante del libro di Topol è nato a Terezìn, la città fortezza del secolo XVIII trasformata in campo di concentramento dai nazisti. Suo padre era arrivato con l’Armata Rossa, sua madre era stata letteralmente tirata fuori da lui da una fossa comune. Viva. In chissà quale stato, ma viva. E la follia che avrebbe ottenebrato i suoi giorni a venire era pienamente giustificata da quello che aveva passato. Più tardi il protagonista verrà chiamato ‘l’esperto in rivitalizzazione di luoghi di sepoltura’, perché era stato tra i fondatori di una comunità che aveva l’intento di salvaguardare la memoria di quel luogo.
Insieme a lui si era dato da fare Lebo, un figlio del campo nato di nascosto su uno dei pancacci delle baracche che aveva, quindi, una storia unica e strappalacrime da raccontare. E poi Sara, la svedese che era arrivata a Terezìn in cerca di memorie dei nonni e che aveva avuto l’idea della T-shirt con impresso il viso di Kafka e una scritta che stravolgeva la realtà dei fatti: Se fosse sopravvissuto alla propria morte, Franz Kafka sarebbe stato ucciso qui. In questi tempi in cui le comunicazioni sono facilitate da internet, perché non mettersi in contatto con tutti i possibili finanziatori di un progetto per mantenere in vita il campo di concentramento a eterna memoria?
Basta iniziare con degli agganci, parenti degli ex-deportati, famigliari, e poi c’è il passa-parola, c’è chi regala soldi per farsi pubblicità, mentre i turisti continuano ad affluire. E perché poi non cantare e ballare in quel luogo di morte, celebrando la vita?
Arriveranno le ruspe…ma il nostro narratore sarà rapito e portato in Bielorussia perché dia il suo contributo di esperto. Quello che è riuscito a fare a Terezìn si può fare- e in grande stile- in Bielorussia. Quanti sono stati i morti a Terezìn? Bene, in Bielorussia sono stati di più. Dove sono stati usati e dove si trovano ancora i camion su cui venivano caricati gli ebrei e gassati immediatamente lì dentro? In Bielorussia.
C’è di certo una possibilità di mercato più vasta qui che nella piccola città ceca. Basta che lui tiri fuori la sua chiavetta USB su cui ha messo gli indirizzi dei suoi contatti. Gli mostrano un esempio di quello che stanno allestendo- straordinario, una specie di Disneyland dell’orrore incrociato con un museo delle cere di Madame Tussaud con tanto di mummie parlanti (si gira l’interruttore e le figure raccontano la loro esperienza).
La conclusione deve per forza riportarci alla realtà, una realtà buia quanto i meandri del museo che si dovrebbe inaugurare.
Nulla verrà fatto. “In questo Paese è ancora presto per un museo del genere. E lo sai perché? Perché qui il diavolo si dà ancora un gran da fare!”. Altre mummie potrebbero essere aggiunte a quelle che già ci sono. Intanto tutto tace, nessuna notizia fuoriesce da laggiù.
Jáchym Topol, L’officina del diavolo, Ed. Zandonai, trad. Letizia Kostner, pagg. 165, Euro 14,50