"Il colibrì", Sandro Veronesi
"Marco Carrera sarà un guerriero per tutta la vita, sarà un guerriero per cui neppure la sua propria morte sarà una sconfitta, sarà un Giobbe che, senza attribuirli a Dio, riuscirà a fronteggiare i colpi del destino".
Sua madre gli aveva dato il soprannome affettuoso di “colibrì”, quando Marco era palesemente più basso di statura dei suoi coetanei. Perché il colibrì è l’uccello più piccolo che esista, può essere lungo anche solo sei centimetri. Eppure i Maya lo veneravano come rappresentazione in terra del dio sole, era la reincarnazione dei guerrieri valorosi caduti in battaglia. Sua madre non poteva sapere quanto questo soprannome lo avrebbe identificato con l’immagine dell’uccellino dal piumaggio stupendamente colorato, quanto questo avrebbe corrisposto alla personalità di Marco. Che nel frattempo era cresciuto, dopo la cura ormonale fortemente voluta dal padre e osteggiata dalla madre. Aveva raggiunto e superato di un centimetro la media dell’altezza dei ragazzi italiani. Marco Carrera sarà un guerriero per tutta la vita, sarà un guerriero per cui neppure la sua propria morte sarà una sconfitta, sarà un Giobbe che, senza attribuirli a Dio, riuscirà a fronteggiare i colpi del destino. Barcollerà ma resterà saldo, come il colibrì che riesce a mantenersi fermo in volo grazie alla frequenza del battito delle ali.
Il romanzo è la storia della vita di Marco Carrera, una vita comune fatta di felicità e infelicità come quella di tutti, di perdite e di conquiste, di tante morti drammatiche, questo sì, più di quante sia giusto aspettarsene. E’ lui, Marco Carrera, a rendere “unica” questa sua vita comune. E’ la sua maniera eroica da eroe del quotidiano di affrontare difficoltà e tragedie, a rendere lui straordinario e la sua esistenza diversa.
In medias res - Sandro Veronesi inizia il suo romanzo dalla metà, con la visita di quello che sembra un ometto qualunque e invece è lo psicanalista che ha in cura la moglie di Marco, un personaggio singolare, l’opposto di Mefistofele che, però, come Mefistofele, ha la capacità di apparire a fianco di Marco nei momenti in cui questo ha bisogno del suo aiuto. L’apparire dell’ometto annuncia la fine del matrimonio di Marco. Sembrava un matrimonio felice, quello di Marco e Marina, ma era destinato a finire male fin dall’inizio, basato com’era su un castello di menzogne.
L’ordine temporale non è lineare nella narrazione e non c’è un solo stile narrativo - sono questi due motivi del fascino del romanzo.
Ci sono lettere scambiate tra Marco e Luisa, il suo amore di sempre, amore corrisposto, non consumato, consumato, a distanza, con brevi vacanze insieme. Sono lettere vere e proprie scritte su carta, con un indirizzo di fermoposta, come si usava una volta. Ci sono lettere di posta elettronica, quelle che Marco invia al fratello che si è trasferito in America, estraniato dall’amore per la stessa donna, segnato - anche lui - dalla tragica morte per suicidio della sorella Irene. Elenchi e valutazioni dei pezzi di arredamento della casa dei genitori che deve essere venduta dopo la loro morte, della collezione dei libri Urania del padre, dell’archivio fotografico della madre: le cose parlano, tengono in vita i morti, ci dicono di loro, dei loro gusti più o meno segreti. Sono elenchi che ci emozionano con la loro voce che arriva dal passato, come le rievocazioni di Umberto Eco ne “La misteriosa fiamma della regina Loana”
C’è la narrativa in terza persona e sempre lui presente, Marco Carrera, oftalmologo, che non è un eroe perfetto (per fortuna), che gioca d’azzardo ma che ci lascia senza parole con quella decisione così “superumana” di rinunciare alla vincita, la notte che avrebbe dovuto segnare la sua rovina. Marco Carrera che non vedremo mai completamente felice con una donna a fianco, ma che sa ritagliarsi la felicità dedicandosi interamente, con intelligenza e generosità, a far crescere prima sua figlia e poi, dopo un'altra drammatica morte, la nipotina Miraijin, la bimba con un nome che significa “l’Uomo del Futuro”, la speranza per l’umanità proiettata nel 2030.
Non c’è un credo religioso nella storia del nuovo Giobbe (straziante la morte in contemporanea dei genitori, straziante ed eroico il ruolo di Marco in risposta alla supplica del padre, “portami via”) e tuttavia si usa per due volte una parola ebraica per indicare due condizioni inesprimibili in italiano. Solo l’ebraico (e altre lingue arabe) ha una parola per indicare la condizione che è contro l’ordine della natura, quella del genitore che resta orfano del figlio - shakul. Marco non è solo shakul ma è pure uno tzaddik, un uomo giusto che si comporta con rettitudine, che è un grande anche nel momento in cui muore.
“Il colibrì” ha vinto il premio Strega 2020. Giustamente. Perché è un libro molto bello. Per il suo personaggio, per il ricco stile narrativo, per la miniera di riferimenti letterari e al mondo della cultura (splendido il breve inserto sul ‘dio del manga’, Osamu Tezuka), per la misura pacata con cui è scritto.
Ed. La Nave di Teseo, pagg. 368, Euro 20,00
Recensione a cura di Marilia Piccone
Agosto 2020