“Abbandonare un gatto”, Haruki Murakami
"Riorganizzare i ricordi ha la sua importanza per Haruki Murakami, che per la prima volta si ripiega su se stesso in una confessione intimistica- forse è quello che accade ad ognuno di noi con il passare degli anni, quando abbiamo raggiunto l’età che era quella dei nostri genitori." M. Piccone
"Dove parlo di mio padre’, recita il sottotitolo. E, ‘Cosa ricordo di lui…’, è la frase con cui inizia questo libro breve di memorie senza un ordine, il tentativo di Haruki Murakami - forse il massimo scrittore giapponese vivente- di dare una sorta di eternità alla figura di suo padre con cui non aveva avuto contatti per anni. C’è una punta di rimorso o di rimpianto, quando si accorge di questa cesura nelle loro vite? O c’è l’accettazione di un allontanamento naturale, reso necessario dall’esigenza di costruire un sé indipendente dalla personalità paterna?
I ricordi si presentano senza una logica di importanza, o forse con una loro logica non apparente, per una rilevanza soggettiva in quel momento in cui sono stati vissuti. Così il primo ricordo è del giorno in cui lo scrittore bambino, con in mano una scatola che conteneva una gatta e appollaiato sul portapacchi della bicicletta, era andato con il padre alla spiaggia per abbandonarvi la gatta. Erano tutti amanti dei gatti, in casa sua, ma quella gatta randagia era incinta e forse era di troppo. Fatto sta che padre e figlio depositarono la scatola sulla sabbia, risalirono in bicicletta e tornarono a casa. Dove avevano trovato la gatta lì, sulla porta, a salutarli con il suo miagolio. Come aveva fatto ad essere più veloce di loro? Un miracolo che doveva restare impresso nella memoria del bambino, insieme all’allegria e al sollievo del padre nel vedere la gatta.
Eppure, nonostante l’apparenza, non è affatto un ricordo irrilevante. Ci anticipa qualcosa del carattere mite del padre, del groviglio di sentimenti e ricordi suoi che deve portarsi dentro. Che cosa ci vuol dire, infatti, suo padre, con la preghiera mattutina davanti alla statuetta di un bodhisattva (ricordiamo che il bodhisattva è colui che, pur avendo raggiunto l’illuminazione, rinuncia al nirvana e continua a reincarnarsi per aiutare gli altri a raggiungerlo, spendendo per loro i propri meriti)? Alla domanda del figlio aveva risposto che pregava per “le anime di chi è morto in guerra”, per i soldati giapponesi e per quelli cinesi, quindi, senza fare distinzione. Perché suo padre, nato nel 1917, era appartenuto ad una generazione sfortunata. Aveva studiato in scuole a indirizzo buddista, era stato arruolato nel 1938, aveva combattuto in Cina.
C’erano delle incertezze riguardo al suo reggimento e il figlio aveva preferito a lungo di non sapere nulla di preciso. Era arruolato forse nel 20° reggimento che era stato responsabile del massacro di Nanchino? E però- un macigno che si solleva dal cuore- se suo padre era stato arruolato nel ‘38, non poteva aver preso parte ai crimini di guerra, a quello che viene chiamato sia ‘lo stupro di Nanchino’ sia, più ambiguamente, ‘l’incidente di Nanchino’, dividendo tuttora le coscienze giapponesi e che era avvenuto nel dicembre del 1937. Dopo ci sarebbe stata la seconda guerra mondiale…La generazione sfortunata.
Suo padre non parlava mai della guerra e per il figlio è più facile immaginarlo come lo studioso di buddismo e poi di letteratura che come l’uomo che imbraccia un fucile. Come lo scrittore di haiku, piuttosto che come l’uomo che assiste alla decapitazione di un prigioniero- un’immagine che doveva essere impressa a fuoco nella mente del padre se aveva dovuto cercare di alleviarne il ricordo condividendolo con il figlio. E lui, il figlio nato nel 1949 nel difficile dopoguerra del Giappone (è strano che non ci sia alcun accenno alla ‘bomba’), era stato una delusione per il padre? Lo aveva desiderato più studioso e invece a lui la scuola non interessava?
Riorganizzare i ricordi ha la sua importanza per Haruki Murakami, che per la prima volta si ripiega su se stesso in una confessione intimistica- forse è quello che accade ad ognuno di noi con il passare degli anni, quando abbiamo raggiunto l’età che era quella dei nostri genitori.
“Io riesco a pensare soltanto scrivendo, ho bisogno di rivangare la memoria, riconsiderare il passato e trasformarlo in parole che si vedano e in frasi che si possano leggere.” Mi fermo a queste parole, aggiungendo quelle, pure molto belle, di poche pagine più avanti: “Ognuno di noi è una delle innumerevoli, anonime gocce di pioggia che cadono su una vasta pianura. Una goccia che ha una sua individualità, ma è sostituibile. Eppure quella goccia ha i suoi pensieri, ha la sua storia e il dovere di continuarla.” Questa è una prosa bella come i versi di un haiku.
I disegni di Emiliano Ponzi che illustrano il libro, mutuando in maniera mitigata i tratti dei manga giapponesi, sono stupendi.
Ed. Einaudi, trad. A. Pastore, illustrazioni di E. Ponzi, pagg. 76, Euro 15,00
Recensione a cura di Marilia Piccone
Gennaio 2021