VIKAS SWARUP

Intervista all’autore dei ‘Sei sospetti’ (e del bestseller 'Le dodici domande', da cui è nato il film 'The Millionaire')

VIKAS SWARUP

Dopo aver letto il romanzo “I sei sospetti” (il tema dei processi farsa è molto attuale anche in Italia), ho parlato con Vikas Swarup di tecniche di romanzo, di mafia, di corruzione e delle conseguenze del consumismo.
L'autore è noto al grande pubblico per il libro "Le dodici domande", da cui è stato tratto il film pluripremiato agli Oscar "The millionaire".


Il suo romanzo I sei sospetti è una denuncia, forse ancora più forte di quella contenuta nel suo libro precedente, Le dodici domande, di tante cose che vanno male nella società indiana contemporanea: pensa che uno scrittore e i suoi romanzi possano essere efficaci nell’aumentare la consapevolezza della gente o nel debellare il male?    Ci sono scrittori e scrittori. Alcuni sentono di avere l’obbligo di riformare la società e altri preferiscono intrattenerla. Io mi trovo nel mezzo: voglio scrivere romanzi che siano impegnati e di intrattenimento. Voglio che i lettori, alla fine, pensino alle questioni che ho sollevato. E tuttavia non voglio che pensino di leggere un romanzo a tema, piuttosto un romanzo con una coscienza. Se diventi polemico, il tuo messaggio può andare perso. Ma se riesci a divertire il lettore e a farlo anche pensare, questa è la maniera giusta per comunicare il tuo messaggio.

Mentre stavo leggendo il suo libro i nostri quotidiani discutevano la frase detta dal nostro primo ministro, che gli scrittori che scrivono della mafia diffamano il paese. Che ne pensa?    Non sono d’accordo. In una democrazia non si deve spazzare nulla sotto il tappeto, per nascondere la sporcizia, perché è peggio: è fare come lo struzzo che caccia la testa nella sabbia per non vedere quello che è. Uno scrittore è come un fotografo. Quando scrive, fa una fotografia della società. Forse quella foto non è buona, ma una macchina fotografica non mente mai. Parlando di quelle questioni, si deve dire la verità e non si può dire che si diffama il proprio paese denunciandone i mali.

Le questioni sollevate nel suo romanzo sono molte: pensa che la corruzione e l’avidità siano alla base dei comportamenti colpevoli?    Più che corruzione, direi che il nodo del romanzo è una critica della nostra civiltà materialista. E non lo è solo l’India. L’aborigeno Eketi pensa che, lasciando la sua isola, arriverà in un grande paese pieno di luci, ma scopre che sotto le luci c’è il buio, vede il buio nei nostri cuori. E’ come se mettesse uno specchio davanti a noi. Dov’è la compassione per i poveri? Dov’è la solidarietà? Questa è la società creata dal consumismo in cui i poveri non hanno voce. E questo è il messaggio del romanzo: ci sono delle grida che noi non sentiamo perché siamo assordati dal rullo dei tamburi. E’ un tema interessante: noi pensiamo che gli aborigeni siano dei selvaggi che vanno in giro nudi, che sono rimasti all’età della pietra, che sono dei primitivi, e loro pensano che siamo noi ad essere dei selvaggi. La depravazione non esiste nella loro società, è una contaminazione della civiltà.

Eketi è quindi una figura come il John di Huxley nel Nuovo Mondo?    Esattamente, oppure come il Candide di Voltaire.

Il romanzo mostra una splendida architettura: come si procede a scrivere un romanzo del genere? Aveva in mente una tesi e ha escogitato quali fossero i personaggi giusti per dimostrare la sua tesi?    La ragione principale è che volevo scrivere un romanzo polifonico, con la voce di diversi personaggi. Non volevo un eroe principale, piuttosto sei eroi o sei malvagi, e volevo che parlassero nella loro unica voce. Uno parla solo tramite conversazioni telefoniche, di un altro leggiamo il diario…ma come potevo assicurarmi che queste sei voci non sembrassero sei racconti separati? Ogni storia reggeva come storia a sé, ma come farla diventare parte di un romanzo più ampio? Altri scrittori hanno dato voce a più personaggi, Al-Aswani ad esempio, in Palazzo Yacoubian. Ma per lo più gli altri scrittori hanno scelto un palazzo o una casa di ritiro come cornice per le loro storie. Io volevo una cornice più ampia. Ho pensato allora ad un delitto e di fare dei sei personaggi sei sospetti, sei possibili assassini. E’ questo il legame tra di loro. In un’investigazione ci può anche non essere un legame tra i personaggi coinvolti. La struttura del romanzo è l’anatomia di un delitto.

Ha detto che non c’è un eroe. Non potrebbe essere il giornalista l’eroe?    E’ un eroe o uno psicopatico? Il mondo è grigio, nessuno è perfetto, nessuno è del tutto simpatico, io volevo dei personaggi interessanti, volevo che il lettore fosse curioso di sapere di più di loro. Volevo rappresentare il mondo reale che è grigio e non bianco e nero.

Ad un certo punto Mohan Kumar inizia ad avere una personalità scissa. Crede di essere Gandhi: ha fatto entrare Gandhi nella trama, creando un settimo personaggio, per mostrare quanto si sia allontanata l’India dalle sue origini?    In parte sì, ma volevo anche qualcuno che fosse l’opposto di Kumar, che è un burocrate corrotto, un donnaiolo, un uomo senza scrupoli. L’unico possibile era Gandhi, che rappresenta la verità e l’onestà. In più in questa maniera mostravo a che punto si sia arrivati, in un mondo dove non c’è più niente di sacro, dove l’immagine di Gandhi può essere usata per reclamizzare un dentifricio.

L’attrice di Bollywood: è vero anche per l’India che le donne sono cambiate molto di più degli uomini? quanto è responsabile Bollywood o il cinema dei cambiamenti delle donne o dei cambiamenti nelle loro aspirazioni?    E’ vero, le donne sono cambiate più degli uomini, anche perché prima la loro condizione era veramente molto bassa, e tuttavia non c’è ancora parità tra i sessi. Il governo cerca di dare maggiore potere politico alle donne, ha stabilito che nei consigli dei villaggi la quota femminile sia il 33%. Nel Kerala, nel sud dell’India, c’è un sistema matriarcale, sono le donne a prendere le decisioni: il risultato è che c’è il 100% di alfabetizzazione. Bollywood ha stereotipato la figura della donna. Rappresenta la figura tradizionale di moglie e madre devota. Sono pochissimi i film in cui la donna è indipendente. Succede sempre che l’uomo tradisce e la donna perdona: il tipo che soffre in silenzio. Bollywwod ha fatto della donna un oggetto sessuale, le donne sono là per il canto e la danza.

Com’è cambiata la vita delle famiglie? Ci sono ancora le grandi famiglie in cui si convive tutti insieme? Oppure il mercato del lavoro ha fatto cambiare anche quelle?    Cinquant’anni fa c’erano le grandi famiglie, dove tutti- nonni, figli e nipoti- vivevano insieme. Non so se vivevano insieme felici e contenti, ma di certo erano grandi famiglie. Anche i soldi venivano messi tutti insieme. Io stesso sono cresciuto in una famiglia così. Tutto questo è scomparso, ora ci sono le famiglie nucleari. Spesso gli anziani vengono messi in case di riposo, sono sempre più numerosi i ragazzini che hanno le chiavi di casa perché non trovano nessuno quando rientrano da scuola. Almeno nelle grandi città è così, non basta più un solo stipendio, è la conseguenza della modernizzazione. E però è sempre e ancora la donna che si prende cura della famiglia.

Due dei personaggi sono dei casi estremi. Di uno, l’aborigeno, abbiamo già parlato. L’altro è l’americano, ignorante e ingenuo come la peggior idea che possiamo avere degli americani. Usare il grottesco nella letteratura può essere un rischio: non temeva il rischio di renderlo poco credibile?    L’americano è una macchietta, una figura da fumetto. L’ho fatto così deliberatamente. Se crei dei personaggi credibili, non puoi metterli in situazioni incredibili. Lo puoi fare se crei un personaggio che è una caricatura. Volevo uno zoticone del profondo Sud degli Stati Uniti, della zona del bigottismo e volevo un uomo semplice e buono. Un bambinone. Però è lui che alla fine ce la fa e ottiene tutto: la semplicità è la via per sopravvivere. L’ignoranza è una benedizione. Il messaggio è che, se il cuore è puro, tutto ti va bene.

Il personaggio più drammatico è quello di Champi, che rappresenta le vittime di Bhopal: che cosa è stato fatto in questi 26 anni?    Il 7 di giugno ci sarà la sentenza definitive. Speriamo che i 202.000 morti possano riposare in pace e che i 30.000 feriti, più quelli che hanno avuto conseguenze a distanza di anni possano avere un equo risarcimento. Non so se ci sarà nulla di sufficiente per ricompensare questa gente che ha sofferto orrendamente per 26 anni. A tuttora, solo una parte infinitesimale del denaro promesso è arrivato a destinazione. Incrociamo le dita, speriamo nella sentenza del 7 giugno.

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Anche per la recensione del romanzo di Vikas Swarup e per l’intervista con lo scrittore devo scusarmi per il ritardo con cui i due articoli vengono messi on line, dovuto ad un disguido di cui non sono responsabile e di cui mi spiace. M. P.