OLEN STEINHAUER
Intervista all'autore de 'Il turista', avvincente romanzo di spionaggio consigliato da Stephen King
Anche Stephen King, uno dei più accreditati maestri del noir, ha speso elogi su “Il turista” di Olen Steinhauer, raccomandandone la lettura. Un romanzo di spionaggio ambientato ai nostri giorni, a suscitare memorie di Le Carré e di tutto un altro mondo. Ne abbiamo parlato con lo scrittore, presente al Festival di Piacenza.
Una spy story ambientata nel presente: immagino che la prima cosa da farsi fosse chiarire quanto il mondo- e di conseguenza il romanzo- sia cambiato dopo l’11 settembre: è così?
Sì e no: non volevo trattare direttamente dell’11 settembre. Prima di tutto perché l’11 settembre ero a Firenze, lavoravo nella biblioteca di una scuola Americana e ho visto l’attentato su Internet. Sembrava tutto così lontano, è impossibile provare le stesse cose di quelli che erano presenti là. Perciò non volevo scrivere dell’11 settembre- si parla molto dopo, di quanto è successo, quando Tina racconta- ma l’attenzione è sul dramma personale che è più importante.
Essere un agente segreto, o una spia, sembra significare- più di quello che avviene per altri lavori- essere una spia per sempre. Sembra che non ci sia modo di uscirne. Ha mai conosciuto di persona un agente segreto? Quanto sono consapevoli, gli agenti segreti, del loro futuro quando vengono ingaggiati?
Non posso dire di aver conosciuto qualcuno che faceva l’agente segreto: ho conosciuto persone collegate con l’Ambasciata, questo sì, e mi è capitato di pensare che qualcuno di loro potesse essere una spia. Una volta che ho detto qualcosa del genere- che forse era una spia- ad una persona, questo si è mostrato molto imbarazzato e anche arrabbiato. Forse lo era proprio. Il mio è un mondo dell’immaginazione, ma penso che nella realtà ci siano delle vie d’uscita per chi non vuole più fare l’agente segreto. Piuttosto non c’è soluzione per quello che hai fatto a te stesso guardando il mondo in maniera paranoica: continui per tutta la vita ad essere paranoico e a sospettare di tutti.
Chi ha ispirato il personaggio di Milo Weaver, alias Charles Alexander?
Milo è forse il più autobiografico dei miei personaggi: Milo sono io, è un’estensione di qualcosa che sento in quanto americano che vive in Europa o semplicemente in quanto qualcuno che non vive a casa. Anche quando vivevo in America giravo molto, non ritorno nel posto dove sono nato e cresciuto da almeno trent’anni e avverto questo senso di dislocazione- mi chiedo: dov’è casa mia? In Ungheria dove vivo ora? Certo, ma non perché è l’Ungheria, ma perché in Ungheria ci sono mia moglie e i miei figli. Non ho una geografia a cui connettermi, non ha mai fatto parte della mia vita connettermi alla terra. Ecco perché io sono Milo con la moglie e la figlia. Inoltre Milo ha la mia età, ha frequentato la mia scuola…
Che cosa è il Libro Nero del Turismo di cui si parla spesso nel romanzo?
La vita del turista, non connessa ad alcuna geografia, non è sana- si è sempre in movimento, non c’è nessuna sicurezza sentimentale. Il Libro Nero del Turismo è la Bibbia del Turista, è la guida su come vivere. La domanda più importante non è tanto, ‘che cosa c’è scritto?’, quanto: ‘esiste?’, e se non esiste, perché ne sono tutti ossessionati? Tutti vogliono avere delle risposte facili che rendano la vita più facile, ma se il libro nero non esiste, significa che devi inventarti le risposte ogni mattina e la vita è più dura.
Nel romanzo, il capo dell’Agenzia parla apertamente degli Stati Uniti come di un Impero, o almeno dell’ambizione sempre crescente di diventare un Impero. Ne sono consapevoli gli americani? Sono consapevoli dell’arroganza della loro politica?
Penso che la maggior parte degli americani non pensi di far parte di un Impero. Ai tempi della Guerra Fredda si parlava dell’Impero sovietico ed era un insulto. L’America ha un impero economico, ma nel mio libro quello che voglio dire è che c’è della gente nella CIA che ha il controllo della politica straniera. Milo non crede che l’America sia un Impero, ma ciò che importa è come la gente che ha potere vuole vedere se stessa- come un nuovo Impero, una nuova Roma. Ed è preoccupante se la gente vuole vedersi così.
Una parte della trama coinvolge l’Africa e la connessione tra Africa e Cina: dovremmo temere più questo legame, che non il terrorismo e il fondamentalismo?
Sembra quasi un indovinello, se siano più pericolosi il terrorismo e il fondamentalismo o le nuove forze che emergono in Africa e Cina. Io scrivo delle pressioni economiche e degli effetti delle pressioni economiche sull’andamento della politica. Nei romanzi di spionaggio non si parla molto della Cina e volevo mostrare come un piccolo paese in Africa potesse essere influenzato da due potenze più grandi. E’ una versione contemporanea della Guerra Fredda. Temevo che, se avessi scritto del terrorismo, sarei caduto nei cliché- come si fa a scrivere di un suicida kamikaze senza farlo apparire un fumetto? Non penso di essere abbastanza bravo come scrittore per avere un buon effetto. E non volevo neppure scrivere un romanzo con un personaggio centrale cattivo. Volevo parlare della burocrazia e delle organizzazioni, di persone che fanno errori e di altre che ne fanno meno.
Prima de “Il turista”, Lei ha scritto una serie di cinque libri ambientati all’epoca della Guerra Fredda nell’Europa dell’Est- speriamo di leggerli presto in italiano. Che cosa l’ha attratta verso quel periodo e quei paesi?
Quando avevo 19 anni sono andato a Zagabria per un programma di scambio studentesco e ho deciso di diventare scrittore. Era il 1989: mentre ero là, è caduto il Muro di Berlino, c’è stata la rivoluzione in Romania, è cambiato tutto. Ma avevo 19 anni- avevo iniziato a bere e fumare…mi sono reso conto dopo di che cosa fosse successo. Non avevo capito nulla e me ne sono vergognato. E allora ho deciso di mettere a fuoco quel periodo: era affascinante; da qui sono poi risalito a studiare che cosa era avvenuto prima. Sono andato in Romania con una borsa di studio e ho cercato di scrivere della rivoluzione rumena. Perciò è stato il mio interesse che ha dato forma alla serie di romanzi. Ma li ho ambientati in un paese fittizio: era più pratico, non volevo essere legato alla storia di un solo paese, volevo potermi muovere. Il 1956 era stato più interessante in Ungheria, il 1948 a Berlino… Era una buona sfida, quella di creare un paese fittizio in cui vivere nei cinque anni in cui ho scritto i miei cinque romanzi.
E che cosa Le ha fatto scegliere il genere della spy story? Oppure ne è stato scelto?
L’ho scelto io. Ho iniziato a scrivere crime stories ma poi mi sono reso conto che nel genere di spionaggio c’era molta flessibilità, c’era più libertà che non nel thriller. E perché ho iniziato con crime stories? Proprio io che leggevo James Joyce e mai avrei pensato che avrei scritto un thriller? Ma dopo che continuavo a non essere pubblicato, dopo che è venuto fuori che mio padre proprio non riusciva a leggere i miei romanzi, mi sono chiesto perché mai scrivessi queste cose sperimentali che neppure mio padre ce la faceva a leggere. E allora mi sono messo a scrivere altre storie, e il mio maestro è stato Raymond Chandler.
Pensa che esplorerà altri generi narrativi? E Milo ritornerà in altri romanzi?
Sì, certamente tornerò a scrivere un altro tipo di romanzi, ne ho già parlato con il mio agente. Devo dire che mi piace il romanzo di spionaggio in cui cerco di equilibrare il divertimento e un certo peso letterario. Ma scriverò dei libri in cui non ci saranno più morti, ma che siano divertenti dall’inizio alla fine. E sì, Milo è presente in una trilogia, ho già scritto il secondo e sto scrivendo il terzo romanzo della serie.