STEFANO SERRI
Anche lo spazio bianco è suono. La poesia libera l’anima ad alta voce. Incontriamo il poeta modenese Stefano Serri
Stefano Serri, classe 1980, vive a Fiorano Modenese. Laureato in Discipline teatrali presso l’Università degli Studi di Bologna, lavora come infermiere.
È autore di diverse opere: il romanzo Cuore diverso (Croce Libreria, 2010) e le raccolte in versi Canzoniere per Marina Cvetaeva (Manni, 2007), Una fede rossa (Incontri Editrice, 2008), Rumore a sinistra (Incontri Editrice, 2011), Quaderno portoghese (Edizioni Montag, Premio Solaris 2012), Nonostante la fine del mondo. Poesie tra le crepe dell’Emilia (Edizioni Kolibris, 2013).
Sei laureato in Discipline teatrali e lavori come infermiere. L'avere un certo tipo di formazione e lavorare in un campo completamente diverso è fattore di stimolo per la tua creatività?
Credo che mi sia stato utile, questo binomio, per non volare troppo alto con le speculazioni teoriche, ma nemmeno appiattire troppo l’orizzonte degli interessi. Come infermiere vengo in contatto con moltissime storie e persone: attenzione e ascolto, due strumenti del poeta, sono necessari al mio lavoro. Il teatro, oltre a portarmi a incontri fondamentali (uno per tutti, Claudio Longhi), mi ha staccato, a volte con violenza, dalla mia visione troppo libresca della poesia: ogni parola richiede di essere detta da qualcuno. Anche lo spazio bianco è suono. La poesia libera l’anima ad alta voce.
Come ti sei avvicinato alla poesia?
Ho scritto la prima poesia su commissione, esperienza mai ripetuta. Una compagna di classe, in quinta elementare, leggendo i miei temi, ha chiesto come regalo una poesia. Per l’occasione, ho sfogliato a lungo i vocabolari; non ricordo nulla di questa poesia, se non d’averci messo dentro parole mai conosciute. Andare a capo era un’esigenza tipografica, senza legami con il suono e il ritmo delle parole o il loro significato. Il passaggio da una poesia costruita, ricercata, volutamente difficile (quasi iniziatica) a una scrittura più attenta alla trasparenza e alla leggerezza è stato lungo, legato a molte letture, a molti tentativi, fallimenti, correzioni.
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“C’è splendore / in ogni cosa. Io l’ho visto. / Io ora lo vedo di più. / C’è splendore. Non avere paura.”
da "Canto di ferro"
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Esiste una poesia che non avresti mai voluto scrivere ma che hai messo nero su bianco?
Naturalmente molte delle prima poesie scritte o pubblicate, a rileggerle ora, chiedono pietosamente di essere dimenticate. La cosa peggiore di queste poesie è l’impostura, la non necessità. Per non parlare del fastidioso prurito legato all’uso di un registro fintamente aulico e pomposo. Nel tempo, ho cercato di amare di più il lettore, tentando poesie quanto più felici e genuine. A chilometri zero, se possibile, senza andare troppo lontano a imitare i tesori remoti custoditi nelle mani di altri.
Qual è il tuo poeta preferito?
Sono di umore e gusto un po’ mutevole; un unico poeta farei fatica a segnalarlo. Ci sono poeti che hanno caratterizzato “stagioni” ma che ogni tanto rileggo, come D’Annunzio, Rimbaud, Pasolini, Rosselli; se devo cercare autori che mi hanno accompagnato più a lungo e in modo più continuativo, penso a Baudelaire e a Giovanni Testori. Non sono i “poeti migliori” o i maestri, ma con loro ho passeggiato più spesso che con altri.
Hai un verso/poesia preferito/a? Quale?
È una pagina teatrale, scritta da Marinagela Gualtieri, tratta da Canto di ferro, uno spettacolo della trilogia Paesaggio con fratello rotto del Teatro Valdoca. È la mia pagina luminosa, un testamento di speranza. È un brano lungo, ma lascio per concludere almeno questi versi: “C’è splendore / in ogni cosa. Io l’ho visto. / Io ora lo vedo di più. / C’è splendore. Non avere paura.”
Ciò che forse rende la poesia un genere letterario non sempre accessibile al grande pubblico è la difficoltà di aprirsi ai versi altrui e riconoscere che magari sono migliori dei nostri. Troppi scrivono poesie e troppi pochi le leggono. La poesia in questo senso insegna a praticare l'umiltà, ad ammettere che al di là del nostro foglio possono volare parole migliori, le quali, pur levandosi da altri fogli, possono essere intercettate dalla nostra penna...
Io devo fare spesso i conti con la mia invidia, uno dei peccati capitali che si ammette meno volentieri di commettere. Ne capisco la portata logorante, l’effetto paralizzante sullo sviluppo delle proprie capacità: per questo quando la sento (e capita) non sono tranquillo finché non ne ho stabilito le origini. A volte basta ammettere con se stessi di essere invidiosi per smettere di esserlo (quello che invece si nasconde dentro, si ingrandisce). In campo artistico, la difficoltà nell’ammirare l’opera di altri (i contemporanei viventi, in buona salute e di successo) si manifesta spesso in occasione di riconoscimenti, premi, obiettivi raggiunti, non tanto, credo, sul valore delle opere in sé. Nelle mie letture disordinate capita spesso che, imbattendomi in una pagina di bellezza, mi nasca dentro la voglia di scriverne una in risposta, simile o no: molte cose che ho scritto sono legate a letture, più che a esperienze di altro tipo. Se qualcuno mi accuserà di plagio, non sarà certo la vita.