MATTEO CARLETTI

Una laurea in scienze biologiche e un'esperienza lavorativa incredibile e unica, dal 2001 al 2004, sugli Appennini, in compagnia dei lupi, da cui sono nati due splendidi libri

MATTEO CARLETTI

Dalla bassa modenese all’Appennino per vivere… in compagnia dei lupi. Matteo Carletti, 40 anni, ha una laurea in scienze biologiche ed è responsabile del

Partiamo dall'esperienza che ha segnato la tua vita di scrittore ma non solo. Era il 2001...

...e mi ritrovai nel cassone di un fuoristrada, sballottato come il bagaglio di un aereo masticato da un uragano. Con me c’era Fabrizio Rigotto, futuro collega, amico e compagno di università. Tornavamo da una nottata di wolf howing trascorsa a chiamare lupi. E chi se l’immaginava che quella stessa sera ci sarebbe stato chiesto di lavorare per tre anni in Appennino? Era il 2001, e stava per iniziare l’esperienza lavorativa più incredibile che potessi immaginare.

Grazie per avermi definito scrittore, per ora mi sento più “uno che scrive”, e ce ne sono davvero tanti.

Qual era la tua attività di ricerca?

All’inizio del 2000 le informazioni sul lupo nel modenese andavano poco oltre un mero dato di presenza: sì, i lupi ci sono. Si trattava di capire il loro ruolo nell’ecosistema appenninico, quantificare il numero di individui, capire se vi era riproduzione, ovvero se sussistevano branchi stabili, e se questi interagivano significativamente con le popolazioni preda. Infine, ma si tratta di un elenco davvero molto sintetico rispetto ai nostri obiettivi, dovevamo chiarire se e in che misura il ritorno del lupo interferisse con la pastorizia e l’allevamento.

Buona parte della nostra attività di ricerca era quindi rivolta al lupo, e prevedeva di tracciarne gli spostamenti, individuare gli eventi riproduttivi, raccogliere campioni biologici per analisi genetiche, insomma, perseguitare i lupi giorno e notte, scarponi ai piedi e GPS nello zaino, per descriverne le abitudini.

Allo stesso modo lavoravamo sulle popolazioni preda, caprioli, cervi, daini, cinghiali, per ottenere, grazie a ore di osservazione diretta e mesi di campionamento, dati demografici attendibili. Volevamo capire se il lupo potesse essere ritenuto un fattore limitante significativo, in grado di generare un decremento percepibile nelle popolazioni preda, o fosse piuttosto un elemento di regolazione, un selettore che agisce eliminando gli individui più deboli e quindi addirittura rafforzando tali popolazioni. Così facendo abbiamo constatato col nostro lavoro che i lupi sono pochi, e sono sostanzialmente inoffensivi per l’uomo. Che talora mangiano qualche animale domestico, ma solo quando questo è inadeguatamente custodito, e che ciò avviene in prevalenza a fine estate, quando i cuccioli sono ormai grandi, non cacciano ancora e il branco, che da noi è sempre un gruppo familiare, si deve dannare per procurare loro molto cibo, pertanto osa avvicinarsi maggiormente alle greggi. Cosa non si fa per i figli...

A proposito, nessuno li ha mollati, i lupi. Ci limitavamo a studiarli, e questo è importante sottolinearlo. Chi sostiene il contrario lo fa sulla base di illazioni e voci riportate. Noi c’eravamo, e sappiamo bene come stavano le cose. I lupi erano là, prima di noi.

Com'è vivere tra la natura, assecondare i suoi ritmi?

Per studiare il lupo, per comprenderlo a fondo, quella di calarsi nella natura in cui vive non è una possibilità tra le altre, quanto piuttosto l’unico modo per poter fare bene questo lavoro. L’effetto collaterale è che si cambia, ci si trasforma, riaffiorano elementi ancestrali di una storia evolutiva di cui non siamo più consapevoli, ma che ci portiamo dentro nostro malgrado.

Si possono studiare i lupi anche da un ufficio, raccogliendo dati via satellite che arrivano direttamente a un computer. Ma quel lupo ridotto a un puntino rosso o blu su una cartina digitale cosa sta vedendo, annusando, vivendo, pensando, provando? Forse è malato, e si muove poco, forse è giovane e sta per intraprendere un viaggio alla ricerca di nuovo territori, forse è una femmina incinta che cerca la tana.

Tutto questo il satellite non lo dice, ma lo si può imparare inchinandosi al bosco, entrandovi con modestia, per lasciarsi avvicinare dagli insegnamenti di una creatura nata per il bosco, un popolo selvatico che può fornirci notevoli spunti di riflessione anche filosofica, esistenzialistica sulle nostre vite.

"In compagnia dei lupi"... Com'è stato il tuo rapporto col nostro lupo?

Noi cercavamo i lupi, e i lupi immancabilmente si dileguavano, lasciando flebile traccia. Eravamo diventati guide indiane, attentissimi alla lettura del terreno, alle tracce su neve o su fango, una semiotica che nel tempo abbiamo imparato a decifrare. I nostri lupi sono inoffensivi, e noi ne siamo la prova, avendo fatto di tutto per cadergli tra le fauci. Giravamo soli, spesso di notte, completamente disarmati. Spesso li sentivamo, vicinissimi, ululare la loro straziante canzone corale. Ci portavano nelle aree più segrete del bosco, al cospetto di paesaggi mozzafiato, o dalla quiete surreale.

Da biologo inizialmente mi avvicinavo a loro con atteggiamento inconsapevolmente presuntuoso: io sono l’uomo che sa tutto, lo scienziato, e voi le bestie. Mi sono dovuto piegare alla saggezza del lupo, al suo insegnamento, alla sua incredibile capacità di vivere e contemperarsi nella natura. Mi ha fatto da maestro, insegnandomi la montagna, il bosco, l’Appennino.

Quanti esemplari ci sono sui nostri Appennini? Che abitudini hanno?

La situazione è in continua evoluzione. In quegli anni, nel modenese, vi erano due branchetti di circa quattro individui, soggetti a una mortalità spaventosa. Una coppia quindi, e i relativi figli, che da un anno all’altro se ne andavano o morivano. Di lupi in collina non se ne parlava proprio. Da qualche anno vi sono nuovi branchi pionieri stabilmente insediati in collina e arrivano anche a dieci individui l’uno.

Ormai vivono a ridosso della via Emilia, come raccontato anche dall’amico Paolo Rumiz su La Repubblica, in un articolo del 2009. Il lupo negli anni Settanta era relegato a una decina di aree in Italia, e sembrava prossimo all’estinzione. Da allora si è ripreso, ha abbondantemente superato il migliaio di individui sul territorio nazionale, e non è più a rischio come allora. Paradossalmente oggi il peggior nemico del lupo è il cane. Il lupo vive in branchi, il branco occupa una porzione variabile di territorio approssimativamente di duecento chilometri quadrati, e dove un branco si insedia non arrivano altri lupi, perché verrebbero uccisi a causa della spiccata territorialità degli individui residenti.

Avviene pertanto che i giovani lupi, assecondando un comportamento innato detto di dispersione, si allontanano dal gruppo e cercano di colonizzare nuove aree. Se tali aree sono fortemente antropizzate, come la fascia collinare o addirittura la pianura, i lupi non trovano boschi ma case, e rischiano di ibridarsi coi cani dei residenti, divenendo qualcosa di diverso sia dal lupo che dal cane. L’ibridazione potrebbe contaminare profondamente la purezza genetica del lupo appenninico, riducendolo a un banale e ben più pericoloso canide, bastardo, randagio, e senza l’atavico timore dell’uomo che ciascun lupo custodisce nella propria storia evolutiva.

Da quella tua esperienza è nato un libro...

Certo, tutte le emozioni e il profondo amore per il mio lavoro, per quell’esperienza triennale così particolare, dovevano pur prendere qualche forma, confluire da qualche parte. Si sono infilate tra i fogli di un libro, un libro che hanno letto e acquistato centinaia di persone, ma che nessuna casa editrice ha adottato e pubblicato. Attualmente “La Via dei Monti.

Storie di lupi e di Appennino”, che compendia queste esperienze, è acquistabile solo su internet, dove riesco a farlo vivere grazie ai siti di auto-publishing. È tutto lì, per me, per mia figlia che un giorno forse lo leggerà, per gli amici che mi hanno chiesto mille volte dove fossi finito per tre anni, e cosa stessi facendo in mezzo alle montagne. E per chiunque ne voglia sapere di più sul lupo.

Come nasce il tuo secondo lavorano editoriale, "Sulle gobbe del leviatano. Storie e genti del Crinale tra Frignano e Garfagnana”?

La colpa primigenia di questo secondo libro è ancora una volta dei lupi. Seguendo le loro code ho imparato ad amare profondamente l’Appennino, e a riconoscere diverse tracce delle genti che ci hanno preceduto. Studiando le cartine per capire dove i lupi fossero nascosti, ho familiarizzato con toponimi dai nomi particolari, che mi hanno incuriosito. In questo modo ho intrapreso una ricerca personale, un percorso a tappe sulla linea del crinale, tra toponomastica, storiografia, leggende popolari.

Ho scoperto un’epica dei luoghi che mi ha completamente catturato. Nei lunghi mesi del terremoto dell’Emilia, la notte me ne stavo con una cartina davanti, e ripercorrevo col pensiero le mie montagne, quei luoghi che tante volte avevo percorso, calpestato. E ancora una volta le pagine di un libro hanno accolto un singolare racconto in sette tappe, tra il Corno alle Scale e il Passo delle Radici, che ha come protagonista di fondo una strana creatura, un ancestrale leviatano dalla schiena ingobbita e dalla pelle coriacea solcata dalle intemperie, l’alto crinale che divide il Frignano dalla

Garfagnana. Grazie alla collaborazione degli amici del CAI di Bologna, della Commissione Escursionismo dell’Emilia Romagna e grazie a Claudio Fregni del CAI di Sassuolo, vorremmo che questo libro diventasse un pretesto per splendide escursioni.

Nel tuo libro trovano spazio numerosi personaggi storici...

Sì, davvero tanti, noti e meno noti. Figure come quella dello scienziato Lazzaro Spallanzani, sorpreso a gettar pietre nel Lago Scaffaiolo o Scalfagiuolo, come lo ricordava il Boccaccio. Sorprendiamo Annibale il Cartaginese affacciarsi da qualche passo, o riposare a ridosso del crinale col proprio esercito, alimentando una millenaria leggenda. Oppure Zeno Colò, sciatore incredibile, quasi metafisico nelle proprie evoluzioni su rudimentali tavole di faggio. E poi l’Ariosto che in Garfagnana fu Capitano della Montagna e dovette fare i conti con la piaga del brigantaggio.

Ancora Domenico Vandelli, al quale dobbiamo il progetto e la realizzazione di un’avanguardistica strada transappenninica che collegava Modena e Massa. Compare la leggenda di San Pellegrino, anacoreta e ammansitore di belve, che in più riprese dovette confrontarsi col Maligno, beccandosi da esso un sonoro ceffone. Infine compare la più grande figura femminile dell’Italia medievale, Matilde di Canossa, che dell’Appennino aveva fatto il proprio presidio. Ciascuno di loro mi ha tenuto compagnia, incuriosito, arricchito.

Hai qualche altro progetto, editoriale o non, nel cassetto?

Ho ancora voglia di parlare di animali, anche se non ho più intenzione di farlo col linguaggio del biologo. Mi piacerebbe scrivere un libro per ragazzi, per tracciare un profilo di alcuni animali del bosco in modo non convenzionale, anche se scientificamente corretto. Chi si ricorda i libri di scuola? I racconti, quelli sono tutt’altra storia...