"Bianca Neve". C'era una volta la cocaina a Modena

Il libro "dalla parte dei ragazzi" di Andrea De Carlo, giovane scrittore modenese

"Bianca Neve". C'era una volta la cocaina a Modena

Viso pulito, una giacca scura sopra la t-shirt che  gli dà un’aria più adulta. Andrea De Carlo ha solo 17 anni ma di voglia di fare ne ha da vendere. Il suo libro, “Bianca Neve”, qualcuno potrà non trovarlo perfetto, ma risponde all’esigenza di raccontare in modo diverso una realtà, quella della cocaina, presente anche qui a Modena. Lo ha scritto in soli due mesi. Due mesi di documentazione tra libri, documentari, film, ma, soprattutto, di incontri dopo la scuola fino a tarda sera con Andrea Piselli, Commissario Capo della Polizia Municipale di Modena, per poi tornare a casa “per pace di mia madre”, scherza lui, che poi nonostante l’aria seria e composta è pur sempre un adolescente e arrossisce quando Sandra Tassi ne tesse entusiasta le lodi al tavolo del Memo.

Ciò che colpisce di Andrea è la passione che ha messo in questo libro fin dall’intenzione di scriverlo: un’idea covata e accudita per mesi, quasi con gelosia e meditazione prima di arrivare alla sua traduzione in azione concreta. La passione per la scrittura come valvola di sfogo, che lo accomuna alla sua Ilaria, protagonista del libro. Andrea che a soli 13 anni inizia a scrivere di sport, che al liceo entra a far parte della redazione di “Voci dal B(r)anco” e giovedì pomeriggio torna “a casa”, al Memo, dove la redazione si riunisce, a parlare di dove tutta questa passione lo abbia condotto.

“La scrittura serve a riempire un vuoto” confessa Andrea e forse per questo ha messo quel diario vuoto tra le mani di Ilaria, per darle una seconda strada da seguire, un’opzione all’altro modo di riempire quel vuoto, la cocaina.

Di libri sulla droga, direte, ce ne sono tanti. Alcuni sono diventati leggende letterarie. “Bianca Neve” non vuole spiegare com’è il mondo dei festini, dello spaccio. Non è brutale come “I ragazzi dello zoo di Berlino”. Eppure, attraverso Ilaria, la sua iniziazione agli spinelli e poi alla coca – veloce, quasi fulminea – viviamo il dramma non dell’uso e dell’abuso di droghe, ma della pressione psicologica, scolastica, familiare che spinge Ilaria a cercare “altro”. “Bianca Neve” non offre, naturalmente, una giustificazione, ma si mette in un certo senso “dalla parte” di Ilaria per sottolineare come si arrivi a certe situazioni in modi molto meno drammatici di quanto a volte gli adulti possano immaginare. Il cocainomane non deve essere necessariamente il ragazzo sbandato, che ha subito traumi da bambino o che vive ai margini della società. Può essere una ragazza di buona famiglia, che studia danza e cerca di compiacere i genitori in ogni modo. Finché qualcosa si rompe. Non all’improvviso. Lentamente, come una crepa minuscola, quasi invisibile, che si allarga a ragnatela e, quando diventa evidente, rischia di essere il segno di un danno irreversibile.

Come spiega Sandra Tassi, “Bianca Neve” ci impone di riflettere ancora una volta su quanto spesso possano differire il modo in cui crediamo che siano i ragazzi, il modo in cui essi sono veramente e il modo in cui vorremmo che fossero. Tra questi dislivelli si insinuano le frustrazioni, le insoddisfazioni, la noncuranza che permettono alla cocaina di entrare nella vita di figli insospettabili. La Tassi fa un altro paragone interessante: quello tra “Bianca Neve” e “Vite che non sono la mia” di Carrère. Tendiamo a guardare a certi eventi di cronaca come se non potranno mai riguardarci, ma ci sbagliamo.

L’invito che Andrea De Carlo, invece, fa con il suo libro è quello di stare dalla parte dei ragazzi, in tutti i sensi.

Ascoltando le loro motivazioni, cercando di capire, senza giudicarli. Perché “bisogna lasciare una piccola possibilità di sbagliare”, perché ne hanno il diritto. Di fare i loro sbagli, cadere, rimettersi in piedi. Di afferrare la mano tesa della propria famiglia, quando è troppo difficile riuscire da soli. Una famiglia che li guarda incespicare da lontano, senza invadere quel prezioso spazio di formazione. Ma che li guardi. Li comprenda per come sono fatti davvero. E che sappia quindi aiutarli nel modo in cui hanno davvero bisogno, che è diverso per ogni ragazzo.

Hanno il diritto di non essere bloccati in definizioni generazionali, inutili come quelle frasi standard sulla cocaina che Ilaria ascolta in classe dall’agente di polizia e che con lei non servono  a nulla, perché lei l’ha provata, lei sa come ci si sente, lei sa che quella polvere candida e sottile le ha risollevato il morale dopo mesi di buio. Lei sa. Con quella deliziosa arroganza tipica degli adolescenti, che a loro possiamo perdonare. Agli adulti invece no e loro forse davvero non sanno come stanno le cose. Non sempre, almeno. Ed è per questo che il glossario in “Bianca Neve”, Andrea De Carlo ha scelto di non inserirlo come appendice isolata e marginale, a conclusione del libro, ma come intermezzo tra i capitoli, parte integrante del romanzo.

"Bianca Neve" è per quegli adulti non conoscono abbastanza i ragazzi che vorrebbero aiutare ma nel modo sbagliato. Per gli amici di Ilaria che preoccupati la tradiscono, raccontano tutto ai docenti. E, nonostante Ilaria stia facendo tutte le scelte sbagliate, il lettore non può che sentirsi tradito con lei, odiare quegli amici che avrebbero dovuto cercare un modo diverso di starle vicini, di aiutarla.

Come chiunque messo in trappola, Ilaria fugge, fedele alle antiche fiabe - ben diverse dalla versione disneyana - dove il lieto fine non costituiva una certezza assoluta, dove il mondo non era in bianco e nero, ma colorato di infiniti grigi che potevano fare la differenza.

Articolo a cura di Angela Politi