VÉNUS KHOURY-GHATA

Intervista all'autrice libanese (francese d'adozione) di '7 Pietre per l'Adultera'

VÉNUS KHOURY-GHATA

Vive in Francia da trent’anni, Vénus Khoury-Ghata, ma è nata in Libano: l’arabo è la sua lingua madre e il francese la lingua d’adozione in cui ha scritto quattordici romanzi e libri di poesie. In italiano è appena stato tradotto “7 pietre per l’adultera”, una storia che nasce da un’esperienza personale di cui le chiediamo durante l’intervista.

Perché sette pietre per lapidare l’adultera? Perché è un numero magico?
   Perché per consuetudine servono sette grosse pietre per uccidere. Bisogna uccidere con sette pietre e vengono scagliate dal marito e dagli altri parenti della donna, anche dai suoi figli. La tradizione vuole così. Poi intervengono gli altri uomini del villaggio, perché devono essere tutti solidali nella difesa dell’onore del marito. Sono solo gli uomini a scagliare le pietre perché sono gli uomini che fanno la legge e le donne sono felici di obbedire alle leggi degli uomini. Quando ho parlato con il mullah, mi ha detto che da un po’ di tempo sono diventati più tolleranti e usano pietre piccole e allora ci vuole ancora più tempo per morire. E sempre perché sono più tolleranti non si espone più il corpo della donna morta per quattro giorni, ma solo per uno.

Khouf: un paese vero? Un paese immaginario? Qualunque paese del mondo arabo?
   Khouf è un nome inventato. Non potevo lasciare il nome vero del paese, perché non volevo mettere in imbarazzo l’ambasciatore francese che mi aveva invitato. Ma potrebbe essere qualunque paese del mondo arabo. Da quando il libro è stato pubblicato- e in Francia vengono pubblicate 3000 copie al mese di questo libro- la mia casa editrice riceve un’enorme quantità di lettere di donne tramite Amnesty Women, perché le donne arabe mi considerano il loro difensore. Arrivano lettere dall’Arabia Saudita, dallo Yemen… E’ terribile, sono soggette alla lapidazione non solo le adultere ma anche le ragazze che, ad esempio, si rifiutano di sposare uno zio…Il libro “7 pietre per l’adultera” è diventato il simbolo della lotta delle donne. Eppure non lo avrei mai scritto se non fossi stata laggiù.

Ci racconti allora come è nato il libro…
   E’ nato il giorno in cui stavo andando all’università femminile, che le ragazze possono frequentare purché indossino il chador. L’auto su cui mi trovavo si è fermata, non riusciva più a proseguire. L’autista è salito sul cofano per capire che cosa stesse succedendo: stavano per lapidare una donna adultera.

Quale messaggio vuole comunicare, raccontando una storia di adulterio nel mondo arabo, punibile con la morte, nel mondo occidentale moderno in cui l’adulterio è stato sostituito dal libero amore?
   Forse in Italia la questione non vi tocca ancora così da vicino come in Francia, dove vivono molti musulmani. Nei paesi dell’islam la donna appartiene all’uomo, come l’asino o il bue. Anzi, è peggio ancora di un animale, è come un oggetto, un utensile da cucina. Serve all’uomo che la ingravida. E’ vero, le donne possono andare all’università, ma devono coprirsi col burqa o il chador, e ugualmente possono essere lapidate se adultere. Non riusciamo neppure ad immaginare- io giravo con i piedi nudi nei sandali e venivo additata. La donna è oggetto di disprezzo in molte occasioni. E’ ora che l’Occidente, che ha liberato la donna, si interessi della vita delle donne che non possono vivere come vogliono. E’ ora che l’occidente si renda conto che gli aiuti umanitari non sono sufficienti, che bisogna lavorare sulla mente degli uomini.

Oltre alla protesta contro il maschilismo della cultura musulmana, c’è però anche qualcosa di positivo nella donna araba, che ama con trasporto e genera figli, in opposizione alla donna francese che ha lasciato un amante egoista e ha sepolto un gatto?
   Noor è sottomessa fisicamente, ma non è meno infelice della donna occidentale. E’ vero: anche la donna occidentale può essere ripudiata da un uomo, anche se non viene usata la stessa parola. Perché come si può dire altrimenti quando avviene che una donna cinquantenne viene messa da parte e l’uomo si prende come amante una donna di vent’anni più giovane? Vedo molte donne occidentali infelici, ma hanno il vantaggio di avere la cultura e di poter lavorare. Noor forse è più felice perché non si rende conto: lei accetta che le leggi le facciano gli uomini e che non ha diritto a provare piacere. Noor non ha stati d’animo, non si pone problemi. Pensa che quello che viene dalla legge sia giusto. I figli sono come semi che l’uomo ha piantato dentro di lei e quindi l’uomo ha il diritto di strapparli via da lei. Noor si arrabbia soltanto quando il marito le tocca le piante: sono come figli nel suo ventre. Ed è vero, l’ho visto io stessa, lo so per esperienza: in un villaggio a 2500 metri di altezza fa molto freddo e la cura che le donne hanno delle piante è uguale a quella che hanno per i bambini.

Il libro termina con un dramma e una morte, anche se non è quella che attendevamo all’inizio: perché ci deve essere, comunque, una vittima?
   Noor mi era simpatica, non volevo farla morire. E poi era incinta; Amina è un po’ folle, non fa niente se Amina muore al suo posto. E soprattutto non sono io a decidere, sono i miei personaggi che decidono. Ci sono dei romanzieri ragionevoli che procedono dopo aver fatto uno schema; io non lo faccio, i personaggi mi vengono dal cuore. Ho vissuto per nove mesi con Noor e il bambino che doveva nascere, e il ministro della virtù e gli altri. Ero a New York, ma quando alla sera guardavo fuori dalla finestra, mi stupivo di vedere quello che vedevo, i grattacieli, le strade e le luci di New York. Mi aspettavo le palme del villaggio e le case di pietra…

Perché scegliere una narrazione in seconda persona, quando il personaggio europeo è al centro della scena e la prima persona quando è Amina, l’umile “figlia di nessuno” che nessuno vuole, che parla?
   Quando dico “tu” mi rivolgo al mio io interiore, riesco ad andare in profondità delle cose. Scopro molte cose quando uso il “tu”, è come se fossi una veggente, come se fossi un’altra me stessa senza tabù. Amina si racconta, è folle, può dire quello che vuole.

Allora è Lei la donna occidentale?
   Sì sono io ma provavo vergogna ad usare la prima persona narrante, mi avrebbe bloccato, così mi sono sentita più libera nella scrittura. Sono io e piango ancora il gatto che è morto. E sono stata veramente abbandonata da un uomo, ma era mio marito ed è morto.