SOPHIE VAN DER STAP

Stradanove incontra l'autrice del romanzo "La ragazza dalle 9 parrucche"

SOPHIE VAN DER STAP

Non riusciamo a fare altrimenti: appena incontriamo Sophie van der Stap il nostro sguardo corre ai suoi capelli. Sì, abbiamo letto che è guarita, e deve essere anche passato un po’ di tempo, ma ugualmente è come se un peso si sollevasse dal nostro cuore nel constatare che il caschetto di capelli scuri con mèches bionde non è una parrucca.
   E’ molto bella, Sophie van der Stap, ti guarda con degli occhi di una luminosità trasparente e ti pare impossibile che abbia fissato anche il buio della sofferenza fisica e l’idea di poter morire.


I versi che servono da introduzione al suo libro sono di Kavafis e parlano di viaggiare a Itaca e naturalmente del viaggio di Odisseo: durante il suo viaggio attraverso la malattia, come è riuscita a tenere a mente l’idea dell’esperienza piuttosto che la possibilità di affondare?
   Non sempre ci sono riuscita, andavo ad alti e bassi: penso che la forza mi sia venuta quando mi sono resa conto, poche settimane dopo che mi è stata diagnosticata la malattia, che la vita continuava, che era ancora possibile ridere e godere di momenti buoni. E poi ho avuto il sostegno della mia straordinaria famiglia e degli amici, che mi sono stati tutti vicino, così forti e affettuosi. C’è ancora qualcos’altro: cambiano i valori con un’esperienza simile. Dopo la prima settimana di chemioterapia- che non è certo stata un divertimento- sono tornata a casa per il fine-settimana e la mamma aveva preparato un pranzo speciale, gli amici sono venuti a trovarmi, e a quel punto ti rendi conto che è quello che vuoi dalla vita: l’esperienza della felicità dietro l’angolo è stata la forza che mi ha fatto andare avanti. Certo non ogni giorno era uguale, ma ho capito che, nella situazione in cui ero, la vita poteva essere ancora buona e ho continuato a sperare: dopotutto non avevo motivo di non sperare, perché il trattamento funzionava e c’erano i risultati.

Nel libro sembra che Lei sia circondata da persone molto buone che le sono state di sostegno- la famiglia, gli amici, i medici, le infermiere. Mi sono chiesta se ci sia qualcosa di estremamente positivo nel suo carattere che la aiutava a trasformare queste persone, o la aiutava ad accettare il loro aiuto.
   E’ difficile da dire. Sì, cerco sempre di vedere il lato positivo delle cose e questo ha a che fare con il mio credere che ci sia bellezza nella vita. Ci sono anche il dolore e i momenti difficili, ma preferisco pensare alle cose buone e non drammatizzare quelle cattive. Perché anche le cose cattive fanno parte della vita, anche se io preferisco indirizzare la mia attenzione a quelle buone. E indubbiamente sono fortunata ad avere la famiglia che ho, sono consapevole che molti miei amici non hanno questa fortuna. E sono fortunata anche ad avere degli amici straordinari, quelli di cui parlo nel libro- ed è straordinario avere amici straordinari.

Il libro è un diario: è un diario che ha realmente tenuto durante la malattia o è qualcosa che ha scritto dopo?
   L’ho iniziato nella terza settimana, scrivendo la data del giorno in cui scrivevo. Non scrivevo ogni giorno e tuttavia tenevo una specie di documentazione cronologica di quanto mi accadeva. Poi un amico scrittore mi ha consigliato di scrivere. Non mi ha detto chiaramente che poteva essermi di aiuto, mi ha solo detto che poteva essere divertente per me. L’ho fatto, spontaneamente, quando non sapevo che cosa fare, e la scrittura mi è venuta di getto, immediatamente.

Le è servito scrivere di quello che stava passando? È stata una specie di terapia?
   Mi ha aiutato perché mi ha dato qualcosa da fare, ed era importante perché avevo dovuto interrompere tutto quello che mi interessava fare- gli studi, lo sport…Potevo produrre qualcosa e metterci dentro i miei pensieri. Scrivere mi dava un obiettivo- il mio primo obiettivo era sopravvivere e poi godere di ogni momento che avevo. Se adesso che è diventato un libro mi guardo indietro, devo dire che sì, mi ha aiutato- trovo che è fantastico trovare le parole per i tuoi sentimenti. E’ stata una buona terapia anche se, al momento, non ne ero consapevole.

Il suo libro può essere d’aiuto a persone nella sua stessa situazione, è come un’iniezione di coraggio. Mentre lo scriveva, si rendeva conto che poteva essere d’aiuto ad altri?
   No, lo capisco solo adesso, allora non ero consapevole che potesse essere d’aiuto ad altri e neppure mi interessava. L’ho scritto di getto, allora pensavo solo a me stessa, volevo uscirne io per prima, vincere la malattia.

Aveva mai pensato di diventare una scrittrice, prima di scrivere questo libro?
   Veramente, anche dopo aver scritto il libro, non mi era chiaro che ero una scrittrice- è una di quelle parole che usano i giornalisti per descriverti, quando tu non pensi ancora a te stessa come tale. Non mi sentivo una scrittrice, ma qualcuno a cui era capitato di scrivere, ero una scrittrice per me stessa. Poi ho continuato a scrivere e mi piace ancora, come mi piaceva allora. A volte trovo difficile la vita della scrittrice, perché è molto solitaria. Certo, ho ancora i miei amici, ma sono sola nel processo creativo. E tuttavia amo scrivere, mi piace la calma, mi piace avere totale autorità sul progetto di scrittura. D’altra parte sono una a cui è sempre piaciuto fare le cose da sola, viaggiare da sola ad esempio, senza che nessuno dicesse che voleva andare a destra anziché a sinistra. Adesso sono cambiata un poco, mi piace viaggiare in compagnia. Ma per scrivere sono da sola con i miei pensieri. Sì, desidero scrivere molti libri…

Sappiamo che ha già scritto un secondo libro: sarà ancora autobiografico, in prima persona?
   Ero proprio molto incerta se iniziare un secondo libro come ‘scrittrice’, cioè non più in maniera così immediata e spontanea. E sì, è ancora molto vicino alla mia vita, tra autobiografia e finzione. E’ connesso alla Sophie di questo libro ed è sul cambiamento, su come reagiamo ai cambiamenti.

Le persone di cui parla nel libro paiono tutte molto simpatiche: che reazione hanno avuto nel ritrovarsi nelle sue pagine?
   E’ stato divertente sedersi insieme e leggere le parti in cui parlavo di loro. All’inizio non piaceva il fatto che li avessi indicati con i loro nomi veri, ma li ho descritti come sono- Johann e la sua vanità, Rob e la situazione tra me e lui…Alla fine però hanno deciso tutti che andava bene così.

Quale è stato il momento più basso e quale il momento più alto del suo anno e mezzo come ventunenne in lotta con un tumore?
   Il momento più basso fu quello in cui mi dissero che avevo il cancro e le settimane seguenti. Non potevo riconoscere me stessa nella ragazza ansiosa e dipendente dalla famiglia che ero diventata. Il momento più alto fu quando mi dissero che ero ‘pulita’, che ce l’avevo fatta. Poi ci sono stati tutti i momenti bassi delle sere in ospedale, quando venivo afferrata dalla solitudine. Ma poi pensavo al fine settimana e non desideravo altro che quello- la casa diventava importantissima. Tutte le cose che prima erano piccoli frammenti di gioia, diventavano grandi occasioni di felicità.