SHLOMO BEN-AMI

Stradanove incontra lo scrittore (e storico e politico) del romanzo "Palestina"

SHLOMO BEN-AMI

E’ uno storico e un politico, Shlomo Ben-Ami. Ha studiato a Tel Aviv e a Oxford, ha insegnato Storia moderna all’Università di Tel Aviv ed è stato ambasciatore in Spagna nel 1987. Il suo ruolo nel processo di pace è incominciato nel 1991 come membro della delegazione israeliana alla Conferenza di Pace di Madrid. E’ stato poi ministro per la Pubblica Sicurezza nel 1999 e Ministro degli Esteri nel 2000-2001 durante il governo di Barak. Ha quindi partecipato ai negoziati di Camp David e alla conferenza di Taba.
   Stradanove lo ha intervistato a Milano, dove il suo libro “Palestina, la storia incompiuta” è stato presentato al Circolo della Stampa.

Nel suo libro Lei usa tre parole diverse per parlare di Israele: Yishuv, Eretz Israel e Stato di Israele: quale diverso significato attribuisce a ognuna di loro?
   L’Yishuv è la comunità ebraica come si è sviluppata prima della creazione dello Stato di Israele, una sorta di Stato pre-Stato. La traduzione del termine significa “insediamento” ma oggi questa parola ha preso un altro significato. L’Yishuv era la comunità politica e sociale ebraica nello stato di Palestina prima della creazione dello Stato di Israele. Lo Stato di Israele è l’Yishuv che è diventato un’entità internazionale e legittima, con dei confini riconosciuti. Eretz Israel è l’Israele biblico, che comprende lo Stato di Israele e la West Bank e Gaza.

Altre due parole ricorrono nel testo per spiegare la storia di Israele. La prima è Olocausto, per giustificare la paura costante dell’annichilimento. Dice anche che il ricordo della tragedia fu usato dagli uomini politici- volontariamente? E ci sarebbe stato uno Stato di Israele senza l’Olocausto? Anche se so che la Storia non si fa con i “se”…
   Rispondo prima alla seconda domanda: sì, lo Stato di Israele ci sarebbe stato anche senza l’Olocausto, perché esisteva lo Yishuv e aveva un esercito, rapporti internazionali, era sostenuto dai britannici, aveva la sua economia in sviluppo. La dichiarazione di indipendenza legittimò una condizione che già esisteva. E’ vero che la storia non si fa con i “se”, ma come storico corro il rischio di accettare i “se” e dico che era inevitabile che ci fosse lo Stato di Israele. L’Olocausto creò le condizioni per un sostegno internazionale, ma non inventò l’idea del bisogno che ci fosse uno stato. Quanto ad abusare dell’Olocausto… penso che quando Begin paragonò Arafat a Hitler fosse sincero, anche se ci sono persone come me che dicono che questo è sfruttare l’Olocausto. In politica si tende a sfruttare il passato, così Netanyau dice che viviamo nell’età di Monaco- ma la storia non si ripete automaticamente. Non voglio banalizzare Hitler, così come chiedo ai critici di Israele di non manipolare la Shoah. Dire che Jenin è come Auschwitz è follia. Non voglio dare credibilità a queste espressioni, chiamando Hitler tutti i nemici di Israele. Oggi Israele è uno stato potente e ha un esercito potente; se insistiamo possiamo trasformare l’Iran in Cartagine- ma si può minacciare Israele senza essere Hitler.

La seconda parola che ricorre è “ghetto”: in quale modo la condizione del ghetto ha influenzato l’atteggiamento di Israele?
   Penso che siamo tutti vittime della Storia e la storia ebraica nella diaspora è una storia di persecuzioni, segnata dalla realtà del ghetto. Pensavamo che, diventando una nazione, questa sensazione di vivere in un ghetto sarebbe scomparsa, ma siamo incapaci di abbattere il muro che ci separa dal mondo arabo, per anni siamo stati isolati alle Nazioni Unite e questo ha contribuito a consolidare la mentalità del ghetto. La nostra è sempre stata una comunità circondata da nemici ed è questo che ha creato la sensazione del ghetto- la transizione da diaspora a Stato non ha cambiato la nostra visione del mondo. Può cambiare soltanto trovando un accordo con i nostri vicini, che aiuterà a ridurre l’idea dell’assedio. Golda Meir parlava del complesso di Masada, come se fossimo in una fortezza, a difenderci fino alla fine. Quando parlo dell’Iran dico che è vero, abbiamo un nemico ma non siamo un ghetto, possiamo difenderci. La comunità internazionale è preoccupata quanto noi per il programma nucleare dell’Iran: non siamo un ghetto da distruggere, dobbiamo adattarci alle nuove condizioni.

Lei paragona la situazione di Israele al Sud Africa: potrebbe anche essere paragonata alla guerriglia nel Nord Irlanda?
   Ci sono sempre delle analogie ma non sono mai automatiche, non c’è mai una ripetizione. Per quello che riguarda il Sud Africa, ho fatto un paragone sul punto che la via della pace in entrambi i casi si aprì quando ci fu la disponibilità dell’élite bianca in Sud Africa e di quella israeliana da noi a considerare le soluzioni all’apartheid e alla questione palestinese, quando capirono che il cambiamento è la soluzione più conservatrice, che eliminare l’apartheid era la soluzione migliore e, in Israele, che restituire le terre ai palestinesi era la soluzione più conservatrice per mantenere la solidità dello Stato.

Ha delle parole molto dure verso Arafat, attribuendo in gran parte a lui il fallimento di alcune conferenze per la pace. E tuttavia non sembra che sia stato fatto molto dopo la sua morte.
   Sono severo nei confronti di Arafat ma ne riconosco anche i meriti. Arafat è anche il fondatore del processo di pace, diede legittimità ai due stati e la sua scomparsa ha messo tutto a rischio. Ho molto rispetto per Arafat, penso che il suo errore sia stato di non accettare i parametri di Clinton come erano stati presentati. E’ stato detto che il rifiuto dei parametri di Clinton fu un crimine contro i palestinesi, Arafat aveva un’opportunità d’oro e l’ha rifiutata.

Dalla parte Israeliana la persona nei confronti della quale lei è più severo è Golda Meir: è lei la controparte di Arafat come ostacolo al processo di pace?
   Nel caso dell’Egitto sì. Golda Meir era una donna senza immaginazione politica, è lei da biasimare per la guerra del Yom Kippur. Nel 1972 Sadat propose la pace e lei rifiutò, questo ha aperto la via per la guerra di Yom Kippur. Era una donna impossibile, dura verso l’esistenza stessa del popolo palestinese. Quando nel 2000 feci un discorso alle Nazioni Unite e dissi che siamo al limite della nostre capacità di compromesso, l’ambasciatore egiziano ribatté che gli era difficile crederlo, visto che Golda Meir aveva detto che non c’era un popolo palestinese.

Un’altra cosa che appare chiaramente nel libro è che la tragedia umana dei palestinesi non è stata considerata da nessuna delle due parti: è questa tragedia umana che giustifica l’Intifada?
   Certo che sì e la prima e la seconda Intifada sono il risultato della disperazione, ma in entrambi i casi questa eruzione di furia popolare fu diretta sia contro il PLO sia contro Israele, era una protesta contro la maniera in cui la faccenda dei palestinesi era condotta dai leader di entrambe le parti. Infatti in entrambe le Intifada la furia erompe automaticamente dal basso e senza la guida del PLO, poi il PLO se ne servirà per non essere travolto.

Quale è ora il maggiore ostacolo alla pace, secondo Lei?
   La leadership, la mancanza di leadership da entrambe le parti. Non c’è più un Rabin o un Begin, i capi che ci sono ora fanno una politica di sopravvivenza, piuttosto che formulare dei piani visionari di pace. Non c’è un governo unito con una politica coerente. Basta dire che quando Condoleeza Rice venne in Israele, ha incontrato quattro diversi ministri ed ognuno le ha consegnato un diverso piano di pace.

Pensa che potrebbe ragionevolmente esistere uno stato palestinese diviso tra la striscia di Gaza e la West Bank con un corridoio che unisce le due parti?
   Non è facile ma deve esistere, ci possono essere altre soluzioni ma la geografia è povera: c’è troppa storia e troppo poca geografia. Ma quella è l’unica soluzione. Io personalmente ho firmato l’accordo per il corridoio.

Di recente il leader dell’Iran Ahmadinejad ha detto di non credere nell’Olocausto. Che ne pensa della legge italiana che punisce chi nega l’Olocausto?
   E’ una legge problematica: penso che si dovrebbe lottare in ogni modo contro il negazionismo anche se non sono sicuro che la penalizzazione sia la maniera migliore. Negare l’Olocausto è una forma di antisemitismo, è un travestimento della verità storica, ma la decisione spetta ai governi europei. Preferirei che fosse qualcosa da trattare con gli anticorpi che ci sono nella società piuttosto che con delle leggi che ne fanno un reato.

Un’ultima domanda. Poco tempo fa il Capo di Stato Maggiore israeliano Halutz ha dato le dimissioni: che ne pensa della guerra di luglio in Libano? Rappresaglia esagerata?
   La guerra in Libano è un riflesso della debolezza del governo, non è stato saggio lanciare questa campagna massiccia. Secondo me occorre fare una distinzione fra la ragione della guerra- giusta per riconoscere un confine- e la maniera in cui è stata condotta: poteva essere fermata dopo il terzo giorno.