JODI PICOULT

Stradanove incontra l’autrice de ‘La custode di mia sorella’ in occasione dell'uscita italiana del film tratto dal romanzo

JODI PICOULT

Il 4 settembre arriva nelle sale cinematografiche italiane il film “La custode di mia sorella”, tratto dal libro di Jodi Picoult, con la regia di Nick Cassavetes, Cameron Diaz nella parte della madre e Abigail Breslin (già interprete di “Little Miss Sunshine”) in quella di Anna. Un film straziante, perché il linguaggio delle immagini ha un impatto più forte ancora di quello delle parole. Per l’occasione riproponiamo la recensione del libro (pubblicato nel 2005) e l’intervista con la scrittrice, arrivata in Italia con uno dei due figli per la presentazione.

Nella nostra epoca di avanzata ricerca scientifica è diventato piuttosto comune leggere sui giornali storie simili a quella che racconta nel suo libro. Che cosa l’ha spinta a scriverla?      In America il dibattito sulla ricerca delle cellule staminali è molto controverso, ma è un dibattito essenzialmente politico, come abbiamo visto anche nelle ultime elezioni. Io, invece, volevo che la gente si ricordasse che al centro di queste storie ci sono delle famiglie che soffrono, che esperimentano queste emozioni. Oltre a ciò ho un figlio che ha dovuto sottoporsi a molte operazioni nel giro di tre anni e so che cosa vuol dire per un genitore entrare e uscire da un ospedale come fosse casa propria e so anche come noi genitori vogliamo amare i nostri figli in maniera uguale, anche se a volte un figlio deve avere la precedenza- e noi speriamo che tutto finisca per riequilibrarsi. Ho prestato ai Fitzgerald molte delle mie proprie emozioni.

E’ stato doloroso fare le ricerche per scrivere questo libro? E come è cambiato il suo modo di pensare prima e dopo?      La parte più dolorosa delle mie ricerche è stato incontrare i bambini ammalati di cancro e i loro genitori. E tuttavia mi sono poi resa conto che, stranamente, quei bambini sono più felici e più buffi degli altri, come se sapessero che il loro tempo è limitato e vivessero al massimo ogni momento. I miei pensieri prima e dopo?  Posso dire quello che pensavo riguardo ai miei personaggi: pensavo che avrei trovato Sara antipatica e poi ho finito per non biasimarla per quello che ha fatto nei confronti di Anna. Come madre forse avrei fatto lo stesso. La biasimo, invece, per il modo in cui lascia perdere il figlio Jesse.

Il problema è quello del confine sottile tra etica e scienza. O meglio, fra la ricerca e l’applicazione della ricerca. Pensa che si possa distinguere tra etica laica e etica religiosa?    Il problema è che ci sono due diversi campi di pensiero e questi due campi non possono riunirsi. Se si è molto religiosi e si ha molta fede, non ci si pone delle domande, perché si crede. Se invece sei uno scienziato, devi farti delle domande. Non vedo maniera di conciliare questi due modi diversi di porsi davanti alla questione. Penso però che la storia abbia mostrato che la scienza è alla mercè di chi la fa e in questo senso abbiamo fatto dei passi in avanti ma anche grandi errori. Ad essere onesti forse non c’è una sola risposta ma più risposte per le diverse situazioni. E no, non penso si possa fare una distinzione tra etica laica e etica religiosa- a chiunque si chieda perché pensi sia sbagliato scartare un embrione, ad esempio, la risposta ritorna sempre a qualche concetto religioso.

Il suo libro è anche un libro sui legami famigliari, su come tutti soffrano quando un componente della famiglia soffre e, tuttavia, è solo la sofferenza condivisa che può tenere insieme la famiglia.    La famiglia è composta da individui distinti e, in una situazione come questa, o si disgrega o si rafforza. I Fitzgerald sono sospesi tra l’una e l’altra cosa e la scelta di Anna può portare alla rottura. Alla fine ironicamente è proprio Anna che riporta l’unità in famiglia.

Ed è anche un libro sui rapporti tra sorelle: è per sottolineare questo legame che ha messo nella storia anche i personaggi di due sorelle gemelle, il tutore ad litem e sua sorella?    Proprio così, per questo motivo- Julia e Izzy hanno condiviso l’utero materno e non potrebbero essere più diverse, mentre Kate e Anna non sono gemelle ma sono unite come se lo fossero e non possono separarsi.

Il ragazzo, Jesse, è vittima della situazione quanto Anna, forse ancora di più, perché si sente inutile e non amato.    Jesse è il mio personaggio preferito, è stato quello di cui mi è stato più facile scrivere. A Jesse è stato detto presto che era un “fallimento”, che non era compatibile con la sorella Kate e non poteva fare il donatore. Per questo crescendo ha fatto in modo di adeguarsi a questa etichetta che gli era stata messa addosso.

Amore materno e amore paterno: Sara è il personaggio meno simpatico, non possiamo fare a meno di pensare che il benessere di Anna le importi di meno.    Io provo più simpatia per Sara di quella che ne provano i lettori. Ha la parte del “cattivo” più evidente, quello a cui vuoi dare la colpa. Ma, ad una lettura più attenta, ci si rende conto che la sua narrativa si focalizza sui dettagli, sulla malattia, sui fatti e non sui sentimenti. Se si permettesse di sentirsi in colpa, aprirebbe la porta al dolore e il suo mondo cadrebbe a pezzi. Il suo carattere spinoso è un meccanismo di difesa.

E invece viene fuori qualcosa di positivo dall’amore più distaccato del padre: forse Brian può essere più obiettivo perché non c’è un legame ombelicale.    Forse sì. Sara è molto attaccata a Kate, pur essendo anche la madre di Anna per cui dovrebbe provare gli stessi sentimenti. Brian è una rivelazione: è come se dapprima fosse dormiente e poi si svegliasse come personaggio aiutando Anna a trovare la sua voce.

Mi ha detto prima che uno dei suoi figli ha dovuto subire delle operazioni, è per questa sua esperienza personale che le scene dentro l’ospedale sono così “sentite”?    Sì, l’esperienza personale mi ha aiutato moltissimo nei dettagli. Per esempio, nei nostri ospedali c’è bisogno che la mamma stia vicino al bambino per tutte le necessità, poi si chiama l’infermiera se c’è una crisi. Purtroppo è mia anche l’esperienza della sala operatoria: mio figlio adesso ha 11 anni, quando ne aveva 5 gli hanno diagnosticato una rara forma di tumore dietro gli orecchi. Un tumore benigno molto raro- e ancora più raro da entrambe le parti- su cui però bisognava intervenire perché non fosse mortale, il prossimo maggio dovrà subire un’altra operazione.

Senza rivelare troppo- la fine è bella ma straziante: era proprio necessaria?
   Sì, lo era. Penso che fosse l’unica fine possibile, soltanto uno shock violento poteva far uscire questa famiglia da un ciclo di autodistruzione e riportarla insieme. Nessuna fine diversa poteva essere quella giusta per questo libro.

Articolo pubblicato, insieme alla recensione, sulla rivista “Stilos” del 5 aprile 2005