JANE JOHNSON

Quattro chiacchiere con la scrittrice inglese del romanzo "Il decimo dono"

JANE JOHNSON

Nella fotografia che l’ufficio stampa della casa editrice Longnaesi ci ha gentilmente concesso, la scrittrice inglese Jane Johnson appare con le mani dipinte di henné: è questa immagine la sintesi migliore dei due mondi rappresentati nel suo romanzo “Il decimo dono”- i colori e l’incarnato della scrittrice stessa che rivelano la sua origine inglese e poi quel miracolo fiorito sulle sue mani, che parla di un’altra cultura. Abbiamo incontrato Jane Johnson per parlare con lei del suo romanzo e della sua nuova vita, divisa tra Marocco e Cornovaglia.

Lei è della Cornovaglia, come la protagonista del romanzo: come le è giunta all’orecchio la storia dei pirati? E ha pensato subito alla possibilità di trasformarla in romanzo?
   E’ una storia che mia mamma mi raccontava quando ero bambina: pensavo che fosse del tutto inventata, perché la mamma era bravissima a raccontare. Era difficile sapere che cosa ci fosse di vero e che cosa di inventato. Poi, nel 2004, ho scoperto che era vero: ho sentito una trasmissione alla radio in cui si parlava delle scorrerie che i pirati fecero a Penzance nel 1625. Allora ho iniziato a fare ricerche e ho scoperto che un membro della nostra famiglia era stato rapito nel 1625: era l’inizio perfetto per un romanzo. In Cornovaglia non sono molte le famiglie con il nostro cognome, Tregenna, proprio come la protagonista del romanzo, e possiamo risalire di generazione in generazione fino al secolo XIII. Nel caso dell’antenato in questione i registri davano solo la data di nascita e niente altro: voleva dire che era stato rapito dai pirati.

E il libro di ricamo che è la chiave del romanzo: è semplicemente il collegamento necessario fra le due storie?
   Sì, il libro di ricamo è un espediente letterario. Pensavo che all’epoca c’erano molte donne aristocratiche che cercavano di dare una qualche istruzione alle loro serve, perché dava loro lustro. E quindi l’idea del libro era buona e poi era anche il posto perfetto per aggiungere degli scritti di un diario.

Quando paragona i ricami del Marocco a quelli inglesi, Cat osserva la semplicità dei motivi e il minor numero di sfumature di colore di quelli arabi: è un dettaglio vero?
   Sì, perché l’arte figurative non è incoraggiata dall’Islam e i ricami erano molto semplici e simbolici: c’erano come delle icone che rappresentavano qualcosa d’altro. Poi qualcosa è cambiato nel secolo XVII e non se ne sa il perché. Ecco, mi pareva che a questo punto potevo inserire la storia che il nuovo ricamo provenisse dagli insegnamenti delle donne rubate dai pirati.

Sappiamo che anche Lei è partita per il Marocco: in cerca di che cosa? Di qualche documentazione di quell’antico rapimento? O per visitare il paese e mettere l’atmosfera giusta nel libro?
   Sono andata in Marocco soprattutto in cerca dell’atmosfera giusta. Sapevo che ben poca documentazione era rimasta in Marocco di quegli avvenimenti, perché i pirati dovevano pagare delle tasse sugli schiavi venduti e succedeva quello che succede adesso: cercavano in qualche maniera di evadere le tasse, cancellando la documentazione. E poi non parlavo né sapevo leggere l’arabo e non avrei potuto fare ricerche.

Ma come è successo che non si è mai parlato delle scorrerie dei corsari e del loro prendere gli inglesi come schiavi?
   Perché era un periodo in un certo senso vergognoso per gli inglesi: si supponeva che fossero loro a governare i mari, che i britannici fossero i migliori. Eppure un milione di europei furono presi prigionieri- non solo inglesi, ma anche spagnoli e francesi, portoghesi. Nessuno però ama parlarne. Eppure i corsari arrivarono fino in Islanda: 400 persone furono prese a Rejkiavic. Ecco perché ci sono molti arabi con gli occhi azzurri…

In Marocco Lei ha anche incontrato l’uomo che poi è diventato suo marito: è cambiata- se è cambiata- l’idea che aveva per il libro, dopo averlo conosciuto? Il suo incontro è in qualche modo riflesso nelle due storie d’amore, quella di Cat e quella di Julia?
   Prima di conoscere mio marito il romanzo doveva essere solo un romanzo storico sul XVII secolo. Dopo, però, quell’esperienza mi parve un regalo e non potevo ignorarlo. A mio parere era un arricchimento per il romanzo, una sorta di commentario moderno che corre lungo tutto il libro e crea un parallelo tra le due storie: tante cose non sono cambiate anche se sono passati 400 anni.

Ormai ha vissuto abbastanza a lungo in Marocco ed è nella posizione migliore per paragonare le due culture: a parte l’amore per suo marito, che cosa è che le rende la vita più piacevole là?
   Amo il clima del posto, amo il paesaggio spettacolare, tra il deserto e le montagne. Soprattutto quello che fa la differenza è la natura delle persone: sono ‘calde’, generose, amichevoli e pongono grande enfasi sulla comunità e sui valori umani piuttosto che sui soldi. Tutto questo è molto attraente per chi viene da Londra.

E di che cosa sente maggiormente la mancanza quando è laggiù?
   Dell’andare a far spese…lo shopping, insomma.
Non la pioggia? O il cambio di stagioni?
Le stagioni cambiano anche là, ma mi manca il verde. E non scherzavo sulla nostalgia dei negozi e dello shopping. Quando volevo festeggiare la pubblicazione del libro, non sapevo come farlo semplicemente perché non c’è nessun supermercato e non avrei saputo che cosa fare di diverso per festeggiare…

Ci lamentiamo sempre della perdita di valori nel mondo occidentale. Esistono ancora i valori nei paesi arabi?
   E’ tutto molto diverso: hanno il cuore nel posto giusto. Un esempio: quando la vecchia signora che abita vicino alla famiglia di mio marito è caduta e si è fratturata l’anca, siccome è sola, è parso naturale che mio marito e suo fratello si occupassero di lei, portandola a casa loro. E poi tutto il paese ha raccolto i soldi per l’operazione: era qualcosa di naturale da fare. E’ bello ritornare a quel tipo di vita.

Una donna può trasferirsi per seguire il cuore, ma un uomo è capace di fare altrettanto? Sarebbe capace un uomo di lasciare l’Inghilterra e adattarsi a vivere in un paese o in una cittadina del Marocco?
   Tanto per cominciare, sarebbe più difficile perché se un uomo sposa una donna islamica, deve per forza convertirsi. Io non ho dovuto convertirmi perché abbiamo deciso che non volevamo figli. In ogni modo le donne sono certo più flessibili e si adattano meglio ai cambiamenti. Devo dire, però, che mio marito si è adattato bene alla vita in Gran Bretagna: abbiamo deciso che avremmo passato sei mesi all’anno in Marocco e sei in Cornovaglia. Ci è possibile farlo perché mio marito gestisce un ristorante e possiamo allontanarci nei mesi estivi. In ogni modo, quando ci siamo conosciuti era il momento giusto per entrambi ed ognuno di noi era pronto a rinunciare ad una parte della propria vita per l’altro.