INTERVISTA AD ANNETTE HESS, autrice de “L’interprete”

Quello con Annette Hess era stato l’incontro che avevo programmato per primo, al Salone del Libro di Torino. Ero ansiosa di parlare con Lei, di farle delle domande che mi chiarissero alcuni punti... (M. Piccone)

INTERVISTA AD ANNETTE HESS, autrice de “L’interprete”

Quello con Annette Hess era stato l’incontro che avevo programmato per primo, al Salone del Libro di Torino. Sono una figlia della guerra e il suo libro sul primo processo ai criminali nazisti in cui la giuria era tedesca mi aveva coinvolto in maniera profonda. Ero ansiosa di parlare con Lei, di farle delle domande che mi chiarissero alcuni punti su cui continuavo a pensare.

Il titolo originale “Deutsches Haus” mi sembra più complesso di quello italiano. Ci leggo un tono ironico, qualcosa che ha a che fare con l’ideale delle 3 K, Kinder- Küche- Kirche, una facciata di perbenismo e bontà e innocenza. Sbaglio?

Il titolo in tedesco è una metafora per il quadro della Germania in quell’epoca, esattamente come ha detto Lei, le 3 K- Kirche, Küche, Kinder. In Germania, in qualsiasi cittadina c’è una Deutsches Haus ancora oggi. Quindi è una metafora per dire che ancora oggi possiamo trovare questa forma di razzismo. E sì, è vero, il titolo “Deutsches Haus” ha un significato più complesso di quello italiano.

Chi è la vera Eva? Un’interprete con una storia simile a quella del libro?

Cinque anni fa ho ascoltato 400 ore di registrazione del processo di Francoforte. Non avevo ancora l’idea di scriverne e sono rimasta colpita dall’interprete dal polacco che, con il suo modo di fare tranquillo, ha dato sicurezza ai testimoni. Il secondo modello per Eva è stata mia madre che è nata nel 1942 e che negli anni ‘60 era ignara e ingenua, inconsapevole, proprio come è il personaggio di Eva all’inizio. Mia madre ha preso coscienza dell’Olocausto solo negli anni ‘80.

Se mettiamo a confronto il processo di Norimberga del 1945 e il processo di Francoforte del 1963, osserviamo che l’impatto dei due processi fu molto diverso sui tedeschi. In quale misura e perché?

È impossibile confrontare il processo di Norimberga con quello di Francoforte. Il primo era il processo dei vincitori contro i vinti, ed era contro i grandi criminali, i mostri, mentre il processo del 1963 fu un processo di tedeschi contro tedeschi e nei confronti di ufficiali di grado inferiore. Fu un processo che molti tedeschi non volevano perché a quel punto tutti dovevano ammettere la propria parte di colpa. Tutti erano stati parte di questo ingranaggio.

Come dobbiamo interpretare la scelta del silenzio da parte di chi aveva vissuto in prima persona il nazismo? E non parlo di chi aveva avuto un ruolo attivo, ma di tutti gli altri.

Fa parte della storia del paese in quel periodo. La Germania era in ginocchio, Berlino era distrutta, solo il 20% delle case era rimasta in piedi e quindi non c’era il tempo per riflettere o parlare, altrimenti la Germania non sarebbe ripartita: c’è stato silenzio e rimozione per vent’anni. È più facile fare così che guardare in faccia il trauma ed affrontarlo. Per noi, i nipoti di chi ha partecipato in prima persona, è più facile interrogarsi di quanto lo sia stato per la generazione di mio padre.

Il processo di Francoforte fu conosciuto in seguito come ‘processo Mulka’ dal nome di uno degli imputati. Nel suo libro non si fanno i nomi degli imputati, li si identifica con attributi di animali. Mi sembra un messaggio esplicito. Era più efficace tacere del tutto i loro nomi?

Non volevo un romanzo documentario anche perché, se scrivo nomi e do riferimenti, si possono trovare anche su Google. Non era la mia intenzione, non volevo contribuire al tipo di fascino che queste figure hanno, il fascino del male che suscita desiderio di emulazione, come succede per i nomi di Mengele e Eichman che hanno un qualche seguito ancora oggi.

Il personaggio di Eva, con il suo risveglio e l’affiorare dei ricordi, ci commuove e ci fa tenerezza. Quello di sua sorella è molto più ambiguo. Che cosa rappresenta Annegret?

Annegret rappresenta le conseguenze del trauma non elaborato che porta ad un malessere psichico. E’ quello che è successo con i bambini della guerra di ieri e che succede con quelli della guerra di oggi. Questi bambini hanno, in seguito, la necessità di farsi curare. Annegret aveva più o meno 8 o 9 anni all’epoca della guerra e capiva di più quello che succedeva. Si trovava in una situazione di impotenza e questo spiega come si comporta con i bambini.

E il bigottismo di Jürgen?

Anche lui ha questa colpa, la situazione estrema in cui ha vissuto la sua infanzia lo lega alla gestione della sua sessualità. Mio padre è stato il modello per Jürgen - qualcuno che cerca di essere pragmatico senza esprimere i propri sentimenti. E poi era un figlio del suo tempo nel rapporto con la donna e nell’accettare il ruolo della donna proprio di quell’epoca.

Mi è piaciuto molto il finale che sembra voler togliere il fardello dell’espiazione dalle spalle dei figli dei colpevoli. Quanto è difficile trovare l’equilibrio tra dimenticare e accettare quello che è successo?

Bisogna parlarne e fare domande. Ho parlato con i miei genitori, ho parlato con loro anche di mio nonno, che era nella polizia all’epoca e che di certo ha preso parte ai crimini dell’epoca. Nel mio libro, però, ho cercato di non giudicare, perché puntare il libro contro qualcuno non funziona. È necessario cercare di capire la vita di allora e le condizioni che si trovavano ad affrontare. Vorrei sottolineare un dettaglio: Ludwig aveva deciso di andare ad Auschwitz per avere una casa e un lavoro dove potesse abitare ed avere una vita normale. Molte scelte erano state dettate da necessità quotidiane e contingenti, banali.

Intervista realizzata da Marilia Piccone

leggerealumedicandela.it

maggio 2019

Foto di copertina libera da copyright.

Leggi la recensione del libro dell'autrice Annette Hess “L'Interprete” a cura di Marilia Piccone