INTERVISTA A DAVID DIOP, autore di “Fratelli d’anima”

Marilia Piccone ci propone l'intervista che ha realizzato a David Diop al Salone del Libro di Torino.

INTERVISTA A DAVID DIOP, autore di “Fratelli d’anima”

Ho intervistato David Diop al Salone del Libro di Torino. Non gli era stato ancora conferito il premio Strega Europeo 2019, ma, ugualmente, era una figura di rilievo al Salone - attirava gli sguardi, per l’aspetto aitante, il sorriso aperto, gli occhi vivaci. E, durante l’intervista, mi ha colpito la sua intensa partecipazione, la maniera in cui ascoltava le domande e poi rispondeva, soppesando le parole, spiegando che parlava lentamente perché voleva riflettere.

Un premio meritatissimo, il suo.

Il Suo cognome è uguale a quello di uno dei protagonisti del romanzo: è una storia che appartiene alla Sua famiglia?

Ho scelto questo nome perché in Senegal, e in tutta l’Africa occidentale, esiste una specificità culturale che si chiama ‘parentela per gioco’. Questa parentela per scherzo permette ai membri di più famiglie diverse di prendersi in giro senza che poi ne segua una vendetta o altre conseguenze. Ho voluto che Alfa si prendesse gioco di qualcuno nel momento sbagliato. Alfa ha fatto proprio questo: ha preso in giro il quasi fratello Mademba nel momento sbagliato. Alfa ha detto delle parole che uccidono nell’ambito della guerra e quindi ha fatto uccidere Mademba Diop. No, non ho antenati che siano stati tiratori senegalesi. Alfa non avrebbe dovuto farsi beffe di Mademba nel momento dell’attacco: è il motivo per cui lo scherzo ha assunto un significato diverso. E’ questo che è alla base della colpevolezza del personaggio: le sue parole hanno ucciso il suo più che fratello e si trattava solo di una presa in giro sul suo coraggio.

Che cosa, in Lei scrittore, e che cosa, in Lei uomo, ha fatto scattare la decisione di scrivere questo romanzo?

In quanto uomo c’è il ricordo del mio bisnonno che era un soldato francese ed è stato vittima dei gas tossici impiegati dai tedeschi durante la prima guerra mondiale.

Come uomo ero interessato alla prima guerra mondiale perché questo bisnonno che non ho conosciuto non ha mai raccontato nulla. È tornato e non ha mai parlato per non rivivere momenti terribili. Per questo mi interessa questa guerra, per il silenzio di quest’uomo.

In quanto scrittore mi sono chiesto se ci fossero testimonianze di questa guerra da parte di tiratori senegalesi. Ce ne sono pochissime. Si tratta per lo più di lettere che non rivelano l’intimità del soldato con la guerra e la sua atrocità. Ho deciso di inventare delle lettere fittizie di un tiratore senegalese. E ho voluto creare il personaggio di un soldato che non parla francese e viene dalla campagna. Poiché Alfa è un contadino e non sa il francese, ho scelto lo psico-racconto: è un racconto dentro il pensiero del personaggio senza alcuna mediazione, nemmeno la mediazione fittizia delle lettere, perché il lettore ed io potessimo irrompere nell’intimità del personaggio principale. Io sono il primo traduttore del pensiero di Alfa. E ho scelto questo punto di vista narrativo per risuscitare l’emozione che ho provato leggendo le lettere dei soldati poilus- un termine informale per definire i fanti dell’esercito- che sono state raccolte da uno storico, Jean Pierre Guéno, nel 1998.

Lei parla dei soldati senegalesi chiamandoli ‘tiratori’. Perché?

Il nome “tiratore-fuciliere” è stato dato alle prime truppe nere costituite in Senegal dal generale Faidherbe nel 1857. Queste truppe si chiamavano ‘tiratori senegalesi’ e dal 1910 l’esercito francese aveva previsto di far intervenire, in caso di guerra, quella che definivano ‘la forza nera’ composta da tiratori che venivano da tutta l’Africa Occidentale. Li si chiamava così perché le prime truppe erano state formate in Senegal ma venivano dal Mali, dalla Guinea, dal Burkina Faso, dal Chad…

Forse sbaglio, ma mi pare che non ci sia indicazione sul tempo e sul luogo in cui si svolge l’azione del romanzo. Perché?

Proprio così, ha detto giusto. È stata una scelta volontaria. Perché mi sono documentato e ci sono degli storici che hanno parlato dei tiratori senegalesi, ma, nel momento in cui leggevo questi documenti, contrariamente a quello che fa uno studente, ho deciso di non prendere appunti ma di far lavorare la mia memoria affettiva. Doveva tornarmi in mente solo quello che mi aveva colpito dei momenti storici. Ho voluto mettere questo soldato nel mare di tutte le battaglie. Per un soldato che mette in gioco tutta la sua vita, le ragioni politiche della guerra non hanno senso. Il campo di battaglia è un campo arato dalle bombe e la terra non dà più vita, non ci sono più alberi- soprattutto nella prima guerra mondiale che è stata la prima ‘guerra di fabbrica’. Questa terra su cui si muore è una terra di nessuno e, siccome vedevo attraverso gli occhi del personaggio e so che i soldati non sanno neppure dove sono e si battono per sopravvivere, non ho voluto cadere in un romanzo storico.

Nella terza parte del libro, quella dei ricordi di Alfa, appare un Senegal molto primitivo, degli inizi del secolo scorso. Quanto è rimasto di ‘quel’ Senegal, di quelle ‘tribù’ nomadi e dedite alla pastorizia come quella della madre di Alfa?

Piuttosto che primitivo, parlerei di un Senegal tradizionale, diviso tra agricoltori con radici nella terra, come il padre di Alfa, e un Senegal di nomadi che fanno transumanze alle loro mandrie di manzi su lunghe distanze, come l’etnia peul da cui proviene la madre di Alfa. Ho voluto ricreare non un Senegal primitivo ma mitico, condiviso da chi ha radici nella terra e da chi viaggia in tutta l’Africa occidentale come i peul. Per questo il personaggio di Alfa non è reale ma mitico: in parte ha radici nella sua terra, come la famiglia paterna, e però ha anche il gusto del viaggio come la famiglia della madre.

“Fratelli d’anima” è un tremendo romanzo di formazione, drammatico quanto “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, con un elemento in più che pesa moltissimo: quello della discriminazione che avvertiamo nel termine ‘cioccolatino’ in cui non possiamo non sentire disprezzo. Nella memoria della guerra, come è stato ricordato il contributo delle truppe senegalesi?

C’era una forma di disprezzo, è vero, perché non bisogna dimenticare che queste truppe venivano da un impero coloniale fondato sulla gerarchia delle razze per giustificarsi in quanto impero coloniale- il pretesto del ‘vi colonizziamo perché non siete civili’. Questa fu la ragione per cui nell’attrezzatura fornita dall’esercito francese ai tiratori c’era anche un machete: per far paura ai tedeschi. In certi battaglioni i tiratori hanno ripulito le trincee tedesche con i machete. Quindi l’esercito francese si è basato su un pregiudizio, quello dei tiratori come esseri selvaggi, e, dal lato opposto, i tedeschi- ho visto le caricature sui giornali dell’epoca- hanno presentato i tiratori come dei selvaggi assetati di sangue. Nella caricature li vediamo con una sorta di maschera da selvaggio e una cintura da cui penzolano cranii umani e il machete. Quindi i tiratori senegalesi si sono ritrovati tra i due fuochi della propaganda francese  e tedesca. Io ho voluto svelare in maniera retrospettiva questa propaganda creando un personaggio cosciente dei pregiudizi di cui era oggetto e che ha trovato una forma di libertà sfruttando in piena consapevolezza questa immagine di selvaggio. Ma nelle trincee- ho visto fotografie nel museo dell’esercito a Les Invalides a Parigi- si era creato un legame tra soldati bianchi e neri che avevano condiviso il dolore, si tenevano a braccetto come fratelli. Bisogna distinguere tra le rappresentazioni di cui si sono servite le gerarchie militari e la realtà della fratellanza creatasi tra soldati francesi e tiratori senegalesi.

Come ha vissuto il Senegal il suo passato coloniale? Lei ha vissuto a lungo in Francia. Vorrei che mi desse, se possibile, una visione di entrambe le parti.

Ho avuto l’opportunità di vivere in Senegal con i miei genitori- mio padre è senegalese e mia madre è francese- e ho avuto quindi la possibilità di vivere due civiltà, in armonia perché ho ricevuto affetto da entrambe le famiglie dei miei genitori. Questa opportunità è uno dei motivi per cui riesco a scrivere una letteratura che concilia queste due sensibilità culturali. Dal punto di vista di entrambi la mia storia famigliare non mi fa vedere la colonizzazione da un punto di vista amaro. Dopotutto è grazie alla colonizzazione che i miei genitori si sono incontrati. So molto bene che la colonizzazione è dura, che non è un’operazione filantropica ma, come diceva uno scrittore del Mali, in ogni aspetto della vita umana c’è un lato positivo e un lato negativo. Posso dire che, malgrado tutto quello che si era potuto dire a scuola sugli africani, la famiglia di mia madre ha accolto mio padre a braccia aperte, quando lo hanno incontrato. E in Senegal mia madre è stata ricevuta non come una rappresentante dei colonizzatori ma come la donna scelta da mio padre.

Intervista realizzata da Marilia Piccone

leggerealumedicandela.it

maggio 2019

Foto di copertina libera da copyright.

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