GERALDINE BROOKS (SPECIALE TORINO)

Un messaggio di tolleranza e di dialogo dall'autrice dei "Custodi del libro"

GERALDINE BROOKS (SPECIALE TORINO)

Ad introdurre la nostra intervista alla scrittrice Geraldine Brooks, forse è bene ricordare quanto ha detto il direttore della Fiera, Ernesto Ferrero, a proposito de “I custodi del libro”, e cioè che rappresenta appieno lo spirito di questa edizione 2008 della Fiera con il suo messaggio di tolleranza e di dialogo. E citiamo pure quanto ha scritto la stessa Geraldine Brooks:
«Io celebro la sopravvivenza di Israele ma insieme deploro la sua brutale occupazione… Come corrispondente estera in Medio Oriente… mi è capitato di aspettare sotto il sole cocente nelle lunghe code ai posti di blocco, mentre giovanissimi soldati israeliani vessavano e umiliavano i palestinesi che andavano ai loro malpagati lavori. Eppure io non boicotterò la Fiera del Libro di Torino e sono dispiaciuta che… scrittori arabi abbiano deciso di farlo… Se gli artisti, le cui opere formano il pensiero delle società, non possono incontrarsi e conversare su un terreno neutro, che opportunità di farlo possono avere i politici?»

Quando è nato il suo interesse per la Hagaddah di Sarajevo?
Tutto è iniziato agli inizi degli anni ‘90, quando lavoravo come giornalista durante l’assedio di Sarajevo; ero inviata per le Nazioni Unite e alloggiavo nell’unico albergo funzionante, l’Holiday Inn, dove praticamente stavano tutti i giornalisti. Una sera durante le chiacchiere al bar si è parlato dello splendido manoscritto che non si trovava, il gioiello della biblioteca di Sarajevo. Si è iniziato a fantasticare dove potesse essere finito, si diceva che forse era già stato distrutto durante un bombardamento, oppure era stato trafugato in Israele, oppure era stato venduto in cambio di armi. Solo più tardi sono venuta a sapere della vera storia del bibliotecario musulmano che aveva rischiato la vita per salvare la Hagaddah e ho incontrato quest’uomo che si chiama Enver Imamovic, che mi ha raccontato la storia del prezioso manoscritto. Mi è stato detto che non era la prima volta che un libro ebraico era salvato da dei musulmani, anche questa Hagaddah era stata nascosta in una moschea. Mi affascinava che questo testo fosse stato creato in Spagna nel secolo XIV, quando ebrei e musulmani e cristiani vivevano insieme in un’armonia che fu distrutta dall’Inquisizione. Non si sa come l’Hagaddah sia giunta a Venezia, dove dei preti non l’hanno bruciata nonostante ne avessero ricevuto l’ordine. Il libro quindi era sopravvissuto parecchie volte alla stessa catastrofe: ecco la storia per me.

Che cosa sapeva delle Hagaddah prima di allora?
   Appartengo ad una famiglia ebraica e ho sempre saputo delle Hagaddah, ma quelle che conoscevo io erano libri comuni per bambini. La particolarità di questa era non solo che fosse illustrata ma anche che fosse stata illustrata in un tempo in cui era persino rischioso per un ebreo dedicarsi a questa arte. E poi le illustrazioni erano veramente particolari, così immerse nell’ambiente spagnolo: Mosé salvato dalle acque sembra essere sullo sfondo di Barcellona, ad esempio. Nell’immagine della Genesi, poi, il mondo è rotondo. Chi era l’artista? Forse non era un ebreo, perché un ebreo non avrebbe potuto avere la mano così esperta nel tratto.

Lei è australiana e vive negli Stati Uniti: è per questo che Hanna Heath è australiana? Perché sarebbe potuta essere di qualunque altro paese…
   In effetti all’inizio Hanna era bosniaca, poi mi sono resa conto che il mio personaggio non sarebbe sembrato autentico, non potevo riprodurre tutte le sfumature di linguaggio originali, e allora Hanna è diventata australiana. Ho scoperto anche che i più esperti conservatori di libri sono australiani e che il loro è un lavoro splendido: sono nello stesso tempo scienziati e detective e artisti…

C’è stata qualcuna delle storie che è stata più difficile da scrivere?
   Le più difficili da scrivere sono state quelle vicine al presente. In particolare quella ambientata durante la seconda guerra mondiale è stata molto difficile perché è una memoria vivente, vicina al salvataggio del manoscritto. E non volevo invadere la privacy di persone vere, così ho inventato i personaggi. Sento una certa responsabilità quando una vicenda tocca delle persone che sono ancora in vita, e poi tutti hanno scritto del nazismo e volevo scrivere qualcosa di meno ovvio. I partigiani di Tito potevano rappresentare qualcosa di meno conosciuto. Non è stato facile fare delle ricerche, ci è voluto molto tempo, è anche più complicato avere delle informazioni quando non si conosce la lingua, e non molto è stato tradotto. La parte più divertente è stata, invece quella ambientata a Venezia nel secolo XVII.

Anche i personaggi del presente vivono i loro drammi personali, specialmente quella del bibliotecario di Sarajevo è particolarmente toccate: serve a ricordare che il dolore e la sofferenza sono di tutti e nessuno ne ha l’esclusiva?
   Sembra che questo libro abbia toccato tutti: a Sarajevo la Hagaddah è il simbolo della multietnicità, è la celebrazione della diversità rappresentata da Sarajevo. Una famiglia musulmana mi ha detto che, anche se tutti erano molto poveri, loro stessi e altri avevano comperato sul mercato delle copie della Hagaddah, proprio per il simbolo che era. Sono stata corrispondente dall’estero per 7 anni, ho coperto sei guerre, eppure la sofferenza di Sarajevo mi ha colpito in maniera particolare, forse perché è più difficile comprendere la distruzione causata a qualcuno così vicino a noi, al nostro mondo. Quando avviene nel Medio Oriente ci pare che laggiù sia un male endemico…

Ozren è uno dei due musulmani che salvano la Hagaddah nel corso della storia: rappresentano il valore dell’arte e della cultura sopra tutto?
   Più che una difesa dell’arte e della cultura sono persone che rifiutano l’idea che l’altro debba essere demonizzato, sterminato. La nostra eredità, sia artistica sia appartenente a qualunque patrimonio trascende qualunque implicazione che l’altro sia disprezzabile.

Anche nei suoi romanzi precedenti, “L’idealista” e “Annus Mirabilis”, mostrava una passione per il passato, per riempire i vuoti del passato: trova più interessante il passato del presente?
   No, ma penso sia dovuto alla giornalista che è in me: se passi del tempo e spendi molta energia nel presente dove per forza devi scrivere la verità di quanto accade, sei poi portata ad interessarti di più del passato, dove ci sono cose che sappiamo e altre cose che non sappiamo e possiamo immaginare. Nel presente non siamo mai così liberi. Mi affascina proprio la possibilità di riempire questi spazi vuoti.