CLAUDIO CASTELLANI

Quattro chiacchiere con l'autore dell'interessante romanzo "Il marito muto"

CLAUDIO CASTELLANI

Quando abbiamo terminato la lettura de "Il marito muto" di Claudio Castellani abbiamo provato il desiderio di saperne di più: un libro scritto in terza persona sotto cui si avvertono così chiaramente l’io narrante dello scrittore, l’urgenza di raccontare, il senso liberatorio di questo racconto, non termina nelle pagine del testo che abbiamo in mano.
   Abbiamo intervistato Claudio Castellani, giornalista professionista, nato a Caravaggio nel 1949, fondatore della scuola di scrittura creativa Rablé a Santarcangelo di Romagna.

Il silenzio del marito: è il silenzio di trent’anni oltre al silenzio, all’impossibilità di comunicare allora, al tempo degli avvenimenti del libro?
   Non sono una persona che ama le risposte nette, ma sì, entrambe le cose. In primo piano c’è il silenzio di allora, l’impossibilità di allora di parlare, il segreto che aleggiava e che poteva portare alla morte. La minaccia costante che, se lui avesse saputo, avrebbero potuto ammazzarlo, o lei poteva essere imprigionata. Era un silenzio che doveva difendere da un assedio, i nemici erano la società borghese e l’organizzazione terrorista. E’ il refrain di Maria in tutto il libro: ‘se sai di più di quello che dovresti sapere, ti ammazzano’. Un refrain che dà la cifra della follia in cui i due protagonisti si trovano a vivere. E certo, sono anche i trent’anni di silenzio: mi sono preso trent’anni perché una volta la prescrizione dei reati scadeva dopo 25 anni. Era il tempo in cui si poteva iniziare a riflettere con pacatezza su quel periodo.

Trent’anni sono un tempo lungo: se sono stati necessari, se il tempo per elaborare qualcosa di grave che è capitato è proporzionale alla gravità dell’esperienza, quanto è successo deve avere lasciato un segno profondissimo e indelebile. E’ stato un tempo necessario per mettere a fuoco? Per distaccarsi dai sentimenti?
   Sì, certamente. E’ stato un trauma molto profondo dal punto di vista emozionale; la difficoltà di riflettere su quel periodo è collegata al fatto che l’esperienza del ‘68 era collegata ad una mitologia che la rendeva esaltante. C’era un’enorme massa di giovani che sembrava ad un soffio dal poter cambiare il mondo. Oggi si parla del ‘68 e sembra che fosse il delirio di gente con la testa non a posto, ma c’era veramente una situazione economica e sociale molto grave- come d’altra parte c’è anche adesso. Ma oggi viviamo in un’epoca in cui ogni passione sembra spenta: i ragazzi sembrano incapaci di innamorarsi, incapaci non solo di passioni erotiche ma anche di passioni civili. Era un’impresa difficile riflettere criticamente su quel periodo. Dietro quell’entusiasmo, c’era altro che quel periodo poteva offrire.

Maria dice di far parte di un gruppo internazionale e non delle BR. Non si è sentito parlare molto- o affatto- di questo gruppo internazionale. Chi erano? In che cosa si differenziavano dalle BR?
   Non so di più di quello che Carlo venne a sapere. Per molti anni non sono stato in grado di capire. Oggi dopo decenni di lavoro, si sa che dietro le BR c’era quella che Fasanella e Pellegrino, nel loro libro “Segreto di Stato”, chiamano ‘tecnostruttura’, che collegava organizzazioni diverse di terroristi. L’unica cosa in più è che qui compaiono i Montoneros di cui nessuno ha parlato. Non so se sia vero o no, ma mi pare un dettaglio rispetto al quadro d’insieme. In “Segreto di Stato” Pellegrino dice che sembra assodato che dietro le Brigate Rosse ci fosse qualcosa, anche Curcio ha fatto delle confidenze sulla struttura interna che raccoglieva ex-partigiani di tutta Europa: non è uno scenario fantastico, dunque, quello del libro.

Nel libro vengono rievocati quei tempi lontani, di discussioni senza fine, di coinvolgimento politico perché tutto era politica, anche l’acquisto di un capo di vestiario era politica. E tuttavia, giusti o sbagliati che fossero, c’erano degli ideali. E’ il consumismo che ha divorato tutto questo? C’è ancora una spinta a un mondo diverso nei giovani d’oggi?
   Non appartengo al gruppo di persone che pensano che ogni generazione sia peggiore di quella precedente, non mi pare che la razza umana stia peggiorando. Penso che negli ultimi trent’anni si sia vissuto un carnevale, nel senso di ‘spreco’. Questa ondata di spreco mi sembra destinata a finire- ci sono dei limiti fisici, non si può continuare a sprecare alluminio e petrolio…Inoltre c’è un’altra considerazione da fare, cioè che il fallimento del ‘68 è dovuto al fatto che è stato una rivolta e non una rivoluzione, come dice Cohn-Bendit. Per fare una rivoluzione ci vuole un progetto alternativo e questo progetto alternativo non c’era. Penso che il terrorismo sia stato un fatto tragico e folle, ma che il ‘68 sia stata una rivolta gestita come una rivoluzione senza però un progetto alternativo di società. Il ‘68 è stato un’onda anomala, un incontro fra due correnti, una calda e una fredda, una dal passato marxista-leninista e una nuova dell’antiautoritarismo.

Il romanzo è narrato in terza persona: una barriera necessaria per evitare un eccessivo coinvolgimento? Eppure si avverte chiaramente che c’è un “io” dietro Carlo.
   E’ una falsa terza persona, tutto è visto con gli occhi di Carlo, serve a creare un distacco. Per me è stato molto difficile scrivere il libro. Avevo avuto la tentazione di intitolarlo “La donna senza mani”, per una frase che Maria scrive in una lettera- e che poi è stata tolta dal testo definitivo- ma allora la messa a fuoco si sarebbe spostata su di lei, su Maria, e invece doveva essere su di lui, Carlo.

Carlo- Lei- si è mai posto la domanda se ci sia stato un momento in cui sarebbe stato possibile fermare il corso degli eventi?
   E’ un discorso impossibile da fare. Dal punto di vista privato uno si attorciglia all’infinito, tua moglie si ammazza, avresti potuto o dovuto fare qualcosa? E c’è un angolo dell’anima che dice di sì. Il senso di colpa è inevitabile. Dopo di che sono convinto che il suicidio è così ampio e imperscrutabile che è impossibile fermarlo. Il suicidio si annida nell’essere umano e va al di là degli elementi contingenti.

“Il marito muto”: si ha l’impressione tuttavia, che, in realtà, sia la moglie ad essere muta. Un silenzio così totale che si è esteso anche dopo la morte. E’ intervenuto qualcuno per cancellare tutto?
   In qualche modo sì. E’ una vicenda ancora scottante al di là della vicenda individuale di Maria. Sono lontano dalla mentalità massonica e dietrologica, tutti i segreti intorno alla vicenda Moro mi lasciano perplesso. Secondo i capi delle organizzazioni terroristiche i militanti attivi erano 3000, i semiattivi 30.000. L’area di contiguità era estesa, magari si arrivava addirittura a 300.000. Che fine hanno fatto queste persone una volta che è finita l’epoca del terrorismo, agli inizi degli anni ‘80? Sono silenziosamente rifluite nella pace della società. Non mi aspetto nessuna riflessione da parte degli uomini al potere, ma da parte di chi voleva cambiare il mondo e poi è andato ‘in cachette’: non mi pare che ci sia stata, da parte di questi, una riflessione molto profonda. Guardando l’oggi con gli occhi di allora, c’è da restare sbalorditi.

Il dubbio che si insinua: ma è vero che Maria faceva parte di questo gruppo?- è un dubbio voluto dai dirigenti del gruppo in questione?
   Se Maria era matta? Se era una mitomane? Rivendico la salute mentale di Maria: i tempi erano schizofrenici, se Maria era matta, era un dettaglio. Nel libro c’è una traccia che testimonia che quello che Maria diceva non era frutto di una mente malata: quando Maria dice che per colpa sua era stato preso un covo e dopo pochi giorni Carlo apprende che è vero- se era una mitomane non avrebbe potuto sapere quello che succedeva dopo.

Nella postfazione Lei scrive che “Il marito muto” più che un romanzo sugli eventi politici degli anni Sessanta, Settanta e dei primissimi anni Ottanta, è un’indagine sulla difficoltà umana di accedere alla consapevolezza. E’ una parola che mi ha colpito, “consapevolezza”: che cosa voleva dire con questa parola?
   Vuol dire potermi guardare in faccia quello che succede. Mi riallaccio al discorso sul silenzio, sulla gente che si ripiega dopo aver fatto il terrorista, che diventa chi architetto, chi medico…Significa voler guardare in faccia e spremerne il succo, cercare di capire come certi eventi possano diventare parte della nostra consapevolezza, estrarre il succo di esperienze negative compiute per capire come si siano originate queste cose in modo da non ripeterle più, se possibile. Capire è doloroso, significa mettersi un po’ sul banco degli accusati. Credo che uno scrittore cerchi di donare agli altri la propria follia: non è comune che gli uomini abbiano il coraggio di guardare negli occhi la propria follia.

E tuttavia “Il marito muto” è un romanzo: è qualcosa che Lei doveva scrivere? E’ stato una liberazione, scriverlo?
   Sì, era indispensabile che lo scrivessi. Ci sono storie di cui uno è schiavo. Non mi piacciono le mistiche ma credo che uno scrittore sia schiavo delle storie che deve scrivere. Ed è stata certamente una liberazione scriverlo. Si dice che la prostituzione sia il mestiere più vecchio del mondo. Non è vero, raccontare è il mestiere più antico, ci permette di liberarci, di plasmare dei valori, una visione del mondo. E mi è stato così difficile scriverlo che non mi sembrava mai scritto abbastanza bene- impressione che ho tuttora.