ANTONELLA LATTANZI

Intervista all'autrice di 'Devozione', durissimo romanzo d'esordio sui 'nuovi tossici'

ANTONELLA LATTANZI

Sei stata definita la scrittrice capace, come pochi altri, di raccontare “ il corpo degradato, il corpo innamorato”. Qual è stata la tua scuola? Com’è avvenuta la tua formazione?    Ho sempre adorato scrivere e, da bambina, i miei genitori mi hanno esortata a leggere a lungo. Anche se essere educati alla lettura non significa necessariamente innamorarsene e acquisire abilità scrittorie, sono certa che la mia inclinazione letteraria provenga da li. La scrittura ha accompagnato ogni tappa della mia vita: dall’essermi ritratta, alle scuole elementari, nel comporre il mio primo tema in classe, come un’aspirante autrice di libri, fino a quando, diciottenne, mi sono trasferita a Roma per seguire un corso di scrittura creativa e sceneggiatura, cominciando poi a lavorare per una casa editrice e immatricolandomi infine all’Università di Lettere.

Quale lavoro ha preceduto la scrittura del tuo romanzo? Come sei entrata in contatto col mondo degli eroinomani? E cosa hai scoperto?    Vivevo a Bari ed ero solo una ragazzina quando, all’inizio degli anni ’90, l’eroina è tornata prepotentemente sulla piazza. Credevo si trattasse di un problema circoscritto a certe zone della Puglia, ma trasferendomi nella Capitale molti anni più tardi e ritrovandomi davanti alla stessa realtà, in un luogo ed un tempo diversi, ho avuto ben chiaro che doveva esserci dietro qualcosa di molto più radicato ed esteso a macchia d’olio. E visto che l’eroina, a favore di altri tipi di droga, rientrava a fatica sulle tavole di discussione dei media, ho deciso di parlarne io, dedicandomici per cinque, lunghi anni. Nel corso di questo tempo ho scritto, riscritto, limato e, soprattutto, mi sono finta eroinomane, fra i drogati e presso le istituzioni, per evitare qualsiasi tipo di filtro e avvicinarmi il più possibile alla realtà che volevo rappresentare. Alla comunità romana di Villa Maraini, ad esempio, mi sono recata spacciandomi per una tossica malata di epatite C, intenzionata ad aprire un piano di cura: mi interessava capire fino a che punto può spingersi la discriminazione.

Nikita e il suo fidanzato Pablo, i due protagonisti di “Devozione”, sono personaggi fuori dal solito immaginario tossicomane: ben cresciuti, ben collocati, rispettabilissimi. A cosa si deve questa scelta?    Prima di iniziare a studiare il mondo dell’eroina, immaginavo che il prototipo del tossico fosse quello di uno scarno disadattato sociale, indotto a fare uso di sostanze a seguito di un trauma scatenante. Documentandomi più approfonditamente, ho scoperto che oggi non c’è più un distinguo di ceto, e che questi traumi non sono necessari, ma possono esserci oppure no, come nella vita di chiunque. La stessa Nikita, ragazza di buona famiglia, non è una persona atrofizzata ma è anzi molto viva e reale, con una propria volontà, propri sogni. Gli eroinomani sono spesso presentati come vittime passive o attivi carnefici: la verità, quella più semplice, è che sono prima di tutto persone. Persone con famiglie, idee, amori, soldi. Persone.

Drogarsi negli anni 2000: quanto sono cambiati i gesti e lo spirito con cui lo si fa (o meglio: ci si fa), rispetto al trentennio passato?    La differenza fondamentale fra l’eroinomane di ieri e quello di oggi è nel metadone, che sopperisce il bisogno di farsi continuamente, regalando l’illusione della normalità. Se ciò, da un lato, mette cautamente il tossico in contatto diretto con le istituzioni, dall’altro ne blocca il percorso evolutivo: chi non è indotto a prendere una scelta, infatti, finisce col non compierla mai, autorizzando l’eroina a continuare a divorarlo. Sono le cifre a parlare: nel 2008, in Italia, solo per overdose, sono morti in più di cinquecento.

Dopo la pubblicazione del romanzo, hai mai ricevuto messaggi da parte di qualcuno che abbia vissuto, in prima persona, storie di droga?    Moltissimi. A colpirmi più di tutti è stato il messaggio di un signore sulla settantina, che mi ha contattata tramite Facebook per raccontarmi la sua storia: lui, ex tossico, malato di epatite C, oggi marito e padre di famiglia, mi ha detto di essersi iscritto al Sert così tanti anni addietro da avere, sulla propria scheda, un numero ad una sola cifra. “Tutti quelli che conoscevo, tutti quelli che hanno fatto parte della mia vita, sono morti”, ha scritto.  E ha aggiunto che, fra gli anni ’70 e ’80, l’eroina ha assunto persino una connotazione politica: a suo dire, infatti, c’è stata in quel periodo una propaganda sotterranea affinché, consumandola, il popolo fosse addormentato e le rivolte sedate. Farsi, insomma, anziché fare la rivoluzione.

Dopo o insieme alle sostanze tossiche, quale pensi siano, oggi, altri generi di dipendenze?    Internet, il lavoro, la televisione: manca la “sostanza”, eppure sono dipendenze sostanziose, presentissime. E’ un effetto collaterale dell’epoca consumistica ed è anche, per paradosso, un modo di pensare a una realtà semplificata, ben ordinata, in cui è l’astinenza a suggerirci (ingannevolmente) quello di cui più abbiamo bisogno per essere appagati. Nel caos del mondo reale, infatti, è decisamente più complesso individuare qualcosa o qualcuno in grado di renderci felici.

Quale la miglior cura per disintossicarci?    Penso che le dipendenze non siano curabili ma piuttosto connaturate all’essere umano. E ne esistono di vario tipo: la dipendenza dal lavoro, quella dalla famiglia, dalla chiesa, dal proprio partner. Quel che più conta è riconoscerle e cercare di rendere creativo il rapporto con esse, sul confine sottile fra soggezione e devozione. E’ un cambiamento: richiede coraggio.

Anche l’indifferenza è raccontata in “Devozione” come un ipnotico che disorienta i personaggi, tema tristemente attuale fra la Milano del taxista pestato a sangue e la donna mandata in coma con un pugno e infine non sopravvissuta, nella Capitale: è forse l’apatia il nuovo male senza cura?
   Sì, i rapporti sociali sono cambiati, spesso involvendosi: siamo più egoisti, più egocentrici, più ego-tutto. E finché qualcosa non ci tocca personalmente, tendiamo a convincerci che non possa esistere sul serio. Credo che l’oscenità del nostro tempo sia rappresentata proprio dalla disattenzione per gli altri, la stessa che fa perdere la bussola anche a noi stessi.

Hai dichiarato di aver tratto ispirazione, per le atmosfere della clinica, alle immagini di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Cosa, in particolare, hai immagazzinato di quel film del 1975? E quali altri riferimenti cinematografici e letterari hai avuto?    Il Sert in cui sono stata mi ha riportato alla memoria alcuni passaggi del Cuculo di Nicholson: mi riferisco, in particolare, al momento della terapia, quando, col sottofondo di una musica da camera, ogni paziente è chiamato a recuperare la propria medicina. Ma “Devozione” è intriso di numerosi altri parallelismi al mondo del cinema, dei fumetti, della cultura pop e della letteratura contemporanea. C’è persino un dialogo fra Nikita e il giovane Holden, oltre a diretti riferimenti al film e al romanzo che, più di tutti, hanno rappresentato il tema della dipendenza dalla droga: Amore tossico di Caligari e Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino.

Bari è la città dell’infanzia della protagonista, Bologna quella della devozione al buco, Roma il luogo dell’antisocialità e Napoli un eldorado di eroina a prezzi stracciati: pensi che i grandi centri siano terreni più fertili alle malsane devozioni?    Per assurdo, mentre le sostanze chimiche (lsd, cocaina, chetamina) sono facilmente reperibili nelle metropoli, a non mancare mai nei piccoli paesi è proprio l’eroina, che è la droga della noia. Ho amato subito l’idea che a parlare, nel mio romanzo, fossero anche le città: le ambientazioni in cui viviamo, infatti, non sono mai protagoniste asettiche delle nostre vite. Così, Bari è diventata la città dell’idillio infantile ma anche quella della perdita della purezza; Bologna il paese dei balocchi in cui accedere agli eccessi; Roma il luogo dell’età adulta dove fare i conti con gli errori già commessi, e infine Napoli, al contempo, un paradiso a cancelli aperti ed un inferno sterminato e sterminante.

E tu, Antonella, a cosa sei devota?    Oltre che alle persone che amo, sono devota più che mai alla scrittura, perché è qualcosa di così bello e così difficile che non potrei fare altrimenti: scrivendo mi ritaglio la grande occasione di spaccare l’omertà, senza essere ombelicale o politicizzata, e con nessuna pretesa di indottrinamento, ma creando domande alle quali ciascun lettore possa rispondere da solo, come meglio crede.