ALESSANDRO SCHWED

Stradanove incontra Alessandro Schwed, scrittore fiorentino d’adozione, ebreo, genovese da parte materna e ungherese da parte paterna, autore di 'La scomparsa di Israele'

ALESSANDRO SCHWED

Ci sarà certamente qualcuno che leggerà “La scomparsa di Israele” di Alessandro Schwed e penserà che è proprio una bella idea, quella di eliminare del tutto, senza alcuna discussione o fragore di bombe, lo stato di Israele- finalmente la pace! Ci sarà di certo qualcuno che non capirà l’intento dello scrittore, di fare una dimostrazione per assurdo per mostrare che la presenza di Israele non è solo una realtà che deve essere gestita nel migliore dei modi, ma è anche una necessità per tutti noi, cittadini da sempre di stati che non abbiamo mai dovuto abbandonare. Abbiamo parlato con lo scrittore, fiorentino d’adozione, ebreo, genovese da parte materna e ungherese da parte paterna.

Questi sono i giorni della nuova ennesima crisi del Medio Oriente: è stato il recepire, in passato, una reazione simile a quella che si avverte in questi giorni, del tipo, 'facciamola finita con questi ebrei', a spingerla a scrivere “La scomparsa di Israele”?
   A dire il vero, non sono partito dall'idea di scrivere un libro: ho iniziato a scrivere quello che ora è il primo capitolo spinto dalla sensazione di impotenza che ho provato il 25 aprile di tre anni fa, quando a Milano, nel corso della manifestazione per l'anniversario della Liberazione, sputarono sui tre partigiani ebrei sopravvissuti che erano presenti, e bruciarono le bandiere di Israele. Ne fui sconvolto fin nelle fibre più profonde, certamente per via del rapporto che ho con la seconda guerra mondiale, per quello che è successo alla mia famiglia durante la seconda guerra mondiale. E allora l'antifascismo che riveste i panni dell'antisemitismo ha dato lo spunto iniziale che poi è stato un articolo surreale pubblicato sul Foglio. A Mondadori è piaciuto e da lì è venuta l'idea per questo romanzo. L'idea di fondo era una dimostrazione per assurdo: che cosa succederebbe se gli ebrei se ne andassero da Israele, per stanchezza, per odio...? Non avrebbero un posto a cui tornare...Tutto resterebbe inerte, la natura divorerebbe Israele...perché l'odio lascia il vuoto, tutto quello prodotto dall'odio è nulla. Non solo odio in quanto guerra, ma anche odio a cui è sottoposto il popolo ebraico- non produce nulla: tutti parlerebbero d'altro, se ne dimenticherebbero. Sembra che sia sempre stato così. Viviamo in un mondo in cui qualsiasi cosa terribile accada non fa nessun effetto: il giorno dopo c'è un'altra emozione. Le cose più terribili sono già accadute: i gas nella prima guerra mondiale, la Shoah nella seconda, la bomba atomica...le cose tremende sono all'ordine del giorno. E tuttavia- e questa è la parte dolce del libro- sono convinto che ogni uomo non si può separare dalle proprie radici e la terra non si può separare da noi. Dobbiamo avere cura del rapporto tra di noi come persone e tra di noi e la natura: le radici ci seguono perchè ci amano.

Perché ha scelto il paradosso per scrivere questo libro? perché le è parso che fosse l'unica maniera possibile per parlare di questa realtà?
   Le risposte sono due: la prima è che non so il perché; la seconda è che il romanzo è un falso poetico, deriva dalla mia esperienza del falso da giovane, quando lavoravo alla rivista “Il Male”, la più grande rivista di satira italiana. La mia generazione, che lavorava alla satira in anni lontani, conosceva bene Swift e Sterne e la satira inglese: ho incamerato la satira, ho sempre amato l'umorismo, e anche dopo “Il Male” mi sono dedicato alla satira. Il mio precedente romanzo “Lo zio Coso” univa la satira al dramma. Ne “La scomparsa di Israele” c'è satira, paradosso e soprattutto c'è la figura retorica della dimostrazione per assurdo.

Il libro naturalmente non prospetta soluzioni; solo, nella sua maniera provocatoria, pone una domanda: che cosa farebbero i palestinesi senza il nemico tradizionale? bisognerebbe forse fare quest'altra domanda agli antisionisti: che cosa hanno fatto di costruttivo i palestinesi? che cosa ha fatto di costruttivo per loro il mondo arabo?
   Non ho avuto questa intenzione: racconto come io sento certe cose. Perché certe cose sono semplici: come accade negli odi famigliari- quello tra Giacobbe ed Esaù ne è un esempio-, alla fine c'è sempre un legame profondissimo. Credo che ci sia un legame nella tensione di distruzione che esiste. Israele ha fatto errori, ha governato male, ma è una democrazia; dall'altra parte non accettano questo stato, sono inafferrabili. Nel libro si parla dello sconcerto nel vedere che non c'è più niente dall'altra parte del muro. Eppure c'è un legame tra queste due parti: è come quando un padre e una madre litigano e poi all'improvviso questa tensione distruttiva svanisce e si vede che c'è un legame forte. Ricordo nel passato un legame tra palestinesi ed israeliani più forte di quello che c'era tra ebrei israeliani e il mondo arabo circostante. Il libro racconta queste cose, racconta del legame nebbioso che oggi non si lascia vedere ma che sono convinto esista. Perché io sono convinto che non esista l'odio precostituito.

Il libro- dopo il punto di partenza del “Giorno della Decisione”- segue un filone sentimentale del dolore dell'esilio e un filone cinico e realista. Mi interessa sempre l’ 'architettura' di un libro: come lo ha pensato? come ha stabilito di equilibrare i due filoni?
   Mi vergogno quasi a dirlo: avevo questa idea iniziale, sapevo che non potevo scrivere una saga di 2000 pagine, ho fatto delle scelte, ho scelto delle intensità. Credo che la scrittura sia come una partitura, che sia come una canzone, come una sorta di jam session- dove c'è un'improvvisazione per poi ritornare al tema iniziale. Ho cercato di fare una jam session con uno spirito ebraico, andando quindi a distendermi nei brani, quando l'ispirazione si concludeva. In ognuno di questi capitoli c'è l'idea di una canzone da cantare. La scrittura di un romanzo deve essere intorno alla potenza dell'affabulazione: un romanzo deve avere la forza di portarti con sé. E l'ho voluto fare con i sentimenti che conosco: la malinconia che viene da particolari esperienze in cui gli ebrei sono professionisti, come la separazione, il distacco, la perdita. Conosco queste cose al punto tale che potrei parlarne a occhi chiusi. E poi ho disposto queste cose con una certa armonia: c'è un progetto, ma dopo l'equilibrio si trova per strada. Le mie caratteristiche sono l'umorismo, la satira, la voglia di scherzare e di alleggerire. Qualche critico- e non vorrei essere frainteso, vista la grandezza del paragone- mi ha accostato a Chagall, proprio per quella leggerezza che passa attraverso la satira.

Mi sono chiesta se due delle storie raccontate abbiano lo stesso significato- quella dell'ulivo che non si riesce a sradicare e quella della grotta in cui paiono convergere le tre religioni. E cioè delle radici dei due popoli che sono unite insieme in maniera inestricabile, di tutto il passato che li unisce...
   Questo è un libro sulle radici e sulla terra: le radici di cui Lei parla sono fortissime. Ho raccontato quello che sento che c'è, senza porre divisioni che sono artificiali. Spero che finirà la follia del terrorismo, quando si finirà di occupare certe terre e ci sarà la pace, ma occorrono sacrifici da entrambe le parti. nel libro è chiaro che ci sono legami tra la terra, le persone e la memoria. Facciamo il nome di Maometto, di Abramo: lo spirito dell'uomo va a scaldarsi il cuore dove crede. L'uomo deve rispettare gli altri uomini e deve amarli.