IN SPAGNA PER CAPIRE IL PRESENTE

… e affrontare il futuro

IN SPAGNA PER CAPIRE IL PRESENTE

Ho avuto una grande opportunità lo scorso mese! Non ero mai stata in Spagna. Non avevo mai partecipato ad un training. Non avevo mai avuto modo di parlare a tu per tu con dei ragazzi palestinesi. Dal 6 ottobre al 13 ottobre ho avuto la possibilità di fare tutto ciò, la mia collega (sono volontaria di Servizio Civile presso il Comune di Modena) Marcella dell'associazione Going to Europe, appena tre giorni prima della sua partenza mi ha fatto la grande proposta: "Si è liberato un posto, cosa ne diresti di venire con me?" e non ci ho pensato due volte, giusto il tempo di preparare la valigia, comprare il biglietto aereo e via!

Prima di partire non ho avuto tanto tempo per pensare a quello che avrei fatto, quindi ero piena di piccole paure e allo stesso tempo a dir poco entusiasta, tutto mi si era presentato davanti così in fretta e sembrava così allettante che la mia euforia si notava a un metro di distanza. Temevo di non essere all'altezza, di fare una brutta figura e di non essere a mio agio in un ambiente in cui tutto appariva da lontano così più grande di me. E invece tutte le mie ansie si sono rivelate inutili: è stato davvero tanto semplice e naturale quanto bello, un'esperienza fantastica, la più bella della mia vita ad oggi. Sicuramente il merito va alle persone che ho conosciuto là, circa trenta tra ragazzi: francesi, spagnoli, egiziani, sloveni, palestinesi, marocchini ed italiani.

All'inizio c'è stato l'ostacolo della lingua, dovevamo comunicare  in inglese e il mio era un po' da rispolverare. Inoltre ho avuto modo di parlare in francese e spagnolo quindi mi capitava di fare un mix di lingue, succedeva che una frase iniziasse in inglese, passasse per il francese e finisse con lo spagnolo e una gran risata generale. Il tema del training, organizzato dall'associazione Libertas International ( http://www.libertasinternational.com/ ), era: “Euromed youth challanges, understanding the present to face the future”, cioè capire il presente per affrontare il futuro nell'ambito delle sfide che devono affrontare i giovani nella zona dell' Euro-Mediterraneo. Sicuramente un argomento attualissimo e non facile, che io come la maggior parte dei miei coetanei vivo in prima persona.

Le giornate e le discussioni si sono basate sulla cooperazione e sul metodo educativo “non-formale”concentrato sulla collaborazione, lo scambio di idee ed opinioni e alcune attività di interazione fisica. Tutti questi aspetti hanno contribuito molto a creare un gruppo affiatato ed unito. Lavoravamo in gruppi spesso composti da un componente per ogni Paese, altre volte suddivisi per Paesi stessi. Lo scopo era quello di discutere e lavorare insieme sui diversi punti di vista e le diverse condizioni delle varie nazioni rispetto a molti argomenti: politiche giovanili, Primavera Araba, ruolo della donna,  disoccupazione, effetti della globalizzazione, immigrazione ed emigrazione, situazione economica, sviluppo sostenibile ed abbattimento degli stereotipi.

Stando insieme quasi 24 ore su 24, abbiamo stretto un rapporto così forte che in una settimana non avrei mai immaginato di creare. La cosa che più mi ha colpita è quanto il sottogruppo europeo fosse così simile a quello arabo. Sono sincera, forse a causa di un luogo comune ma immaginavo che i bisogni e i sogni dei ragazzi arabi fossero diversi o quanto meno distanti rispetto ai nostri. Invece no, una delle poche cose che non ci accomuna è l'aspetto fisico, ma le esigenze, i sogni, le speranze e le paure sono le stesse. Il quotidiano è un altro aspetto vissuto in modi diversi a seconda dei paesi, i ragazzi palestinesi per esempio vivono in condizioni assolutamente precarie: il rischio della vita stessa, la mancanza di acqua ed elettricità rappresentano la loro giornata-tipo.

Ma ciò che mi ha più sbalordito è il modo in cui ne parlano, così incredibilmente sereno, conscio e sicuro. Non hanno mai smesso dal loro viso il sorriso, questa è stata la cosa che più mi ha colpita. La loro voglia di andare avanti, di farcela, l'attaccamento al loro paese e la voglia di proteggerlo, ma soprattutto di far sapere al mondo quello che provano e la realtà di ciò che vivono. L'importanza che sta avendo per loro la Primavera Araba. Questi ragazzi non sono ragazzi qualunque, sono persone che vivono in prima linea ma soprattutto che lottano per un'informazione libera e vera. E ciò gli rende onore, in un paese dove molte libertà per noi scontate sono invece negate, impegnarsi per  portare un'informazione non corrotta alla propria gente appare dall'esterno quasi impossibile.

Ci tengo a dire che tutti loro erano grandi amici e collaboratori di Vittorio Arrigoni e mi hanno fatto riflettere su cosa questo ragazzo italiano abbia fatto per la loro società e quanto si sia parlato di lui nel nostro Paese: molto poco a mio avviso, per lo meno in proporzione alla qualità del suo operato. Mi hanno parlato di lui come Italiano trapiantato a Gaza, come simpaticone disordinato, come eroe, come uomo. I loro racconti mi hanno fatto commuovere e sentire per una volta fiera di essere Italiana semplicemente per essere nata nello stesso paese di una persona del suo livello.

Alcuni ragazzi egiziani laureati in medicina mi hanno raccontato invece come nel loro paese sia difficile svolgere il loro mestiere, non ci sono più fondi per la sanità pubblica e quindi si trovano ad operare in strutture dove mancano anche i beni più semplici come i cerotti e ad avere a che fare con pazienti che non capiscono che non è colpa loro se non possono aiutarli come vorrebbero.

Una cosa che è cambiata in me è il rispetto incondizionato per la cultura altrui. Mi spiego, prima di questo viaggio rispettavo comunque la cultura araba ma non ne conoscevo tante caratteristiche, mentre altre non le condividevo perché pensavo che le persone sottostanti a queste regole lo fossero in maniera a volte sottomessa e infelice. Invece no, le donne arabe per esempio sono fiere della loro tradizione culturale e dei loro costumi. Ho scoperto per caso grazie a un gioco che una ragazza marocchina non poteva avere nessun contatto fisico con i ragazzi, neanche sfiorar loro un dito. Le ho chiesto se questo fosse per lei un problema e lei mi ha risposto tranquillamente di no, per lei non c'è nulla di strano, ama il suo modo di essere e non lo cambierebbe per nulla al mondo.

Mi sono ricreduta su tante cose.

L'ultimo giorno è stato molto malinconico, non è stato facile entrare nell'ordine delle idee che la mia settimana finiva lì, che non avrei più sentito i loro racconti, che non avrei più fatto colazione con loro e non li avrei più sentiti ridere per il mio forte accento italiano e il mio modo di gesticolare mentre parlo.

Insomma, un'esperienza vissuta al 100%, che mi ha lasciato più di quanto avessi immaginato. Ha creato legami che spero di non perdere col tempo, ma soprattutto mi ha fatto capire il significato della parola speranza.

Per tutto questo devo dire grazie a: Abdel, Ahmed, Aisha, Amjad, Anna, Arantxa, Camila, Cristina, Eméline, Fatima, Fouad, Hashem, Heba, Jacqueline, Laura, Madjid, Majed, Majd, Marcella, Marta, Mehdi, Monica, Muhammad,Nargisse, Nordine, Rudy, Sergio, Sonia e  Tasneem.